La recensione

"La vita è sogno", fra poetica drammaticità e indagine filosofica

da Pedro Calderón de la Barca

Traduzione, drammaturgia, imagoturgia | Francesco Pititto

Installazione, involucri, regia | Maria Federica Maestri

Musica | Claudio Rocchetti, Johann Sebastian Bach

Interpreti | Valentina Barbarini, Antonio Bocchi, Tiziana Cappella, Lorenzo Davini, Daniel Gianlupi, Paolo Maccini, Agata Pelosi, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera

Cantanti | Debora Tresanini (soprano), Elena Maria Giovanna Pinna (soprano), Eva Maria Ruggieri (contralto), Davide Zaccherini (tenore)

Produzione Lenz Fondazione + Festival Natura Dèi Teatri

 

Sfolgorio d’immagini e metafore, di parallelismi e contrasti, sempre sul confine tra rigore e impeto, erudizione e sentimento, stasi e dinamismo. Assistere alla maestosa messinscena allestita da Lenz Fondazione nello spazio perimetrale esterno dell’imponente Abbazia di Valserena, alle porte di Parma, è stata un’esperienza complessa, ma ineguagliabile. Una ricercata azione teatrale ricchissima di contenuti, parole, iperboli, visioni, indiscutibilmente barocca, come comportava la fonte da cui traeva ispirazione e ragione, ossia “La vita è sogno” di Pedro Calderón de la Barca, e indissolubilmente legata a un’estetica contemporanea, come da linguaggio performativo lenziano. Un progetto questo di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, che ha rappresentato l’ultimo atto del quadriennio dedicato all’approfondimento dell’opera calderoniana e dove, anche forte di un contesto teatrale unico, straordinariamente evocativo (uno sfondo di prati di frumento e girasoli e la brezza della pianura aperta a far da contraltare ideale alla solennità e alla fissità dell’edificio storico attorno cui agivano gli interpreti), si è condensata l’indagine esistenziale, la forma ideologica di matrice filosofico-religiosa già attraversata in precedenti operazioni sull’autore del Siglo de Oro.

Il dilemma “sogno/realtà”, il tema della transitorietà della vita, della precarietà di ogni cosa terrena, il problema della libertà, inteso sia da un punto di vista metafisico che umano, trafiggono lo sguardo e attraversano il pensiero, in una sequenza di tableaux vivants di grande impatto visivo, quattro stazioni di ascolto, immaginazione, meditazione. Il pubblico viene richiamato ad essi fisicamente, guidato su un cammino sconnesso, il prato adiacente la chiesa, un percorso in itinere che sollecita domande, sensazioni e immagini e che diventa, nel movimento, coreografia della scena e sua componente viva, imprevedibile, essenza della realtà stessa. Predestinazione e libero arbitrio in campo. Una battaglia eterna, dibattito antico, intimo, misterioso, insondabile, a cui “La vita è sogno” lenziana cerca di ricondurre coerentemente alle sue forme, alle sue rielaborazioni, ai suoi principi artistici, coinvolgendo in una creazione corale attori professionisti, performer sensibili, giovani interpreti non professionisti, e cantanti d’opera - tutti a loro modo intensi e appassionati - ma che per la natura dell’interrogativo e del testo da cui muove, a tratti resta imperscrutabile, inafferrabile, seppur sempre ipnotizzante, magnetica, potente.

La lotta contro il destino ci appare chiara nei passaggi iniziali: i personaggi con caschi da pugilato, la carcassa di un auto incidentata a lato del quadro d’azione, il giovane Sigismondo che si strugge e divincola in un letto di ferro per poi allontanarsi implorando “Libertà!”, grido di autodeterminazione ripetuto dal buffone Clarino. È espressione vitale, energica, tormentata, della infelicità umana, tra caos e stragi, mentre avanza la figura di una giovane partoriente, la madre, luce della nascita, forse. Sono, invece, catene di ferro quelle che tornano per ricondurre via e simbolicamente imprigionare il principe nella torre. “Nuova vedo ogni cosa” grida “ed un cadavere è quel che vedo!” Disinganno e illusione della vita, dunque, dove ognuno gioca un ruolo provvisorio ed effimero, e i personaggi, anche quelli minori, sono lì a ricordarcelo sempre, con intonazioni austere, meccanicità nei gesti e reiterazioni simboliche (“Corri tempo, correte stagioni”), fra chiaroscuri violenti, inquietanti anche sul piano musicale (le note di Bach intarsiate in un perturbante disegno sonoro di Claudio Rocchetti), veloci fughe, improvvise soste e lente evanescenze; brevi attimi di riposo su brande a castello, con lenzuola che sono fasce e sudari, ma anche momenti danzati nella penombra del crepuscolo, come figure fatate oppure spettri.

Sogno e realtà congiunti fino alla fine, quindi, e mai risolti perché pertinenti all’essere umano e alla sua rappresentazione teatrale, impossibilitata a trascenderne l’antinomia, anche quando, nel finale, la lotta fra menzogna e verità, fra ragione e volontà, si staglia sul muro dell’abbazia come indistinta, pervasiva sequenza video dello scontro fra i due giovanissimi Sigismondo (figure rispecchianti e contrapposte agite in scena da due bravi interpreti adolescenti, Lorenzo Davini e Daniel Gianlupi). Gemelli, sì, eppure diversi, a incarnare il perenne dualismo fra nascita e morte, fra libertà e impedimento. Ma è di Sigismondo uomo, e non ragazzo, il compito di proseguire la lotta contro le forze avverse che lo tengono prigioniero, sia che per farlo debba ricorrere all’ingegno, alla tecnica, sia che possa rispondervi solo con la “sensibilità” e la purezza della propria anima (da qui forse la scelta di affidare il ruolo all'attore sensibile Paolo Maccini), come moderno Cristo recante sofferenza, espiazione e salvezza (“Vado a morire in croce ma domani ritornerò”).

Rimaniamo lì, sul confine fra sogno e realtà, sul limite fra vita e arte, che è soglia di un luogo senza tempo, su quel “perimetro estetico che reclama la bellezza fredda del margine, la potenza languida della perdita” (si legge nelle note di regia), consapevoli di aver partecipato a una valorosa impresa teatrale, meritevole dei lunghi applausi, ma oltremodo confusi, spaesati dalla molteplicità di simboli trasmutati in scena e dalla loro insolubilità filosofica. Una poetica drammaticità quella messa in atto da Lenz che lascia comunque tracce indelebili nella memoria.

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