La recensione

"FESTEN": quando la verità è l'ospite d'onore

FESTEN. IL GIOCO DELLA VERITÀ

di Thomas Vinterberg, Mogens Rukov & BO Hr. Hansen

adattamento per il Teatro di David Eldridge

versione italiana e adattamento di Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi

CON: Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi e Roberta Calia, Yuri D’Agostino, Elio D’Alessandro, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca

REGIA: Marco Lorenzi

ASSISTENTE ALLA REGIA: Noemi Grasso

DRAMATURG: Anne Hirth

VISUAL CONCEPT E VIDEO: Eleonora Diana

COSTUMI: Alessio Rosati

SOUND DESIGNER: Giorgio Tedesco

LUCI:Link-Boy (Eleonora Diana & Giorgio Tedesco)

CONSULENTE MUSICALE E VOCAL COACH: Bruno De Franceschi

PRODUZIONE: TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Stabile Del Friuli Venezia Giulia, Solares Fondazione Delle Arti (in collaborazione con Il Mulino di Amleto)

“Non è una favola per bambini”, questo “Festen” guidato con mano attenta e precisa dal talentuoso regista Marco Lorenzi. O perlomeno, non come ce la racconterebbero i Fratelli Grimm. Lo dichiarano apertamente gli interpreti al momento dell’entrata in scena, in un incipit che sembra ricondurre al tradizionale universo fiabesco di “Hänsel & Gretel” (la miniatura di una casa sul proscenio, il carattere amabile e divertito nel racconto, un costume di peluche), ma che in realtà lascia trapelare già dalle prime battute un senso di straniante inquietudine, in grado di permeare tutta l’azione teatrale fino all’apice di quella che sarà una rivelazione sconcertante. E dunque il gioco che si inaugura, proclamato nel titolo, stringe da subito un patto comune con il pubblico, mettendolo di fronte a un atto di coscienza nel decidere quale copione seguire (“Alzate la mano. Volete quello giallo o quello verde?”), e assumendo una funzione ben più audace e consapevolmente politica che quella d’intrattenere: obbliga a scegliere. Mira a scavare in un bosco fitto di tensioni (lo stesso che idealmente circonda e abita la casa dei protagonisti), non più attraversato da streghe e creature magiche ma da tabù, traumi, segreti inenarrabili, confessioni sconvolgenti, e diventa metafora solida ed efficacissima da cui partire per interrogarci sul rapporto fra potere precostituito e coraggiosa autodeterminazione, fra ordine imposto e affermazione della verità.

Lo spunto è semplice, ed è quello tratto dal film del regista Thomas Vinterberg: una famiglia dell’alta borghesia danese si riunisce per celebrare insieme il sessantesimo compleanno del padre-padrone Helge. La festa, studiata nei dettagli, dovrebbe scorrere come una liturgia, senza sorprese. Ma al centro di quella famiglia c’è un orrore, una lunga serie di abusi e un suicidio; così la festa si trasforma nella messa in scena di un oblio, un rito di sepoltura in cui si scherza, si ride e si beve a comando, mentre si tentano di annegare le nefandezze, di annullare ogni offesa e piaga. Accade però che talvolta sia impossibile continuare a seppellire gli scheletri sotto cumuli di discorsi convenienti, canzoni spensierate e grasse risate, e che qualcosa si rompa in quel sistema fortificato, i fantasmi si alzino dalla fossa per dare scandalo e che qualcuno (in questo caso il figlio primogenito Christian) trovi il coraggio di strappare la maschera per urlare il proprio folle dolore, la voglia di giustizia e verità, spezzando le dinamiche complici di un clan (o società) costruito sulla sopraffazione e su un’omertà fintamente felice.

Nello spettacolo di Lorenzi questo punto di frattura di una comunità viene indagato con una lucidità disarmante, crudele ma necessaria, chiamandoci tutti in causa, nella splendida coralità dell’azione teatrale, portandoci laddove l’intermezzo gioioso svanisce, o s’interrompe bruscamente all’avanzare di uno spettro, di un ricordo, di una violenza, lasciando sempre spazio alla verità della vita, anche nelle sue brutture e tragedie. E allora due domande latenti ma cruciali si affacciano costantemente nel dipanarsi della storia: che cosa può scatenare la crisi di un organismo ritenuto apparentemente inscalfibile? Fino a che punto riusciamo a distogliere lo sguardo dal dolore altrui conservando tutto identico nel tempo? La straordinaria sintonia del cast, il valore della riscrittura drammaturgica, le ingegnose soluzioni sceniche, formali, sonore e musicali messe in campo, riescono nell’impresa di mutuare teatralmente la durezza spietata del film, di convergere sulla scena l’energia, l’irruenza e la forza dello scontro fra ipocrisia sociale e verità della parola enunciata, sia questa svelata in un discorso di auguri- riproponendo a un nuovo livello il gioco iniziale della scelta fra due colori - sia essa scritta - nella lettera della sorella morta- come un monito per ricordarci che non c’è scampo alla verità, qualunque essa sia.

La scena è essa stessa emblema della dicotomia “finzione /realtà”, con un velatino calato sull’umanità degli attori, che interagiscono tra loro mentre una telecamera, manovrata dagli stessi interpreti, li filma per proiettarli direttamente, a più riprese, su quella impalpabile, trasparente, copertura; essa funge così da schermo amplificatore di ogni particolare fisico, di ogni espressione e impercettibile vibrazione, stagliando la gigantografia grottesca e becera dei festeggiamenti, filtrando la realtà, appannando la memoria dei fatti - che si riaffaccia però schietta e atroce in diversi momenti recitati sul proscenio - ma nondimeno esacerbandone i tratti più meschini e fasulli. Un intelligente e mirato uso drammaturgico dei canoni cinematografici che in questo caso è essenziale all’indagine e alla creazione di una doppia prospettiva di visione, dove ancora una volta il pubblico è chiamato a scegliere, ma è anche in perfetta consonanza ai dettami del manifesto Dogma 95, di cui Vinterberg fu fondatore, che esigeva macchina a mano e implacabilità di sguardo.

La coltre sottile che separa la verità dalla sua immagine non può che essere destinata a cadere, e così farà il velo sulla scena, sotto i colpi sferrati da coloro che chiedono parola e onestà, che disperatamente si ribellano al perpetuarsi di una falsa rappresentazione della vita. A volte è un film capolavoro a ricordarcelo. A volte a farlo è un lavoro teatrale che per potenza, rigore, originalità e bravura interpretativa vince a pieni voti nel grande “gioco della verità”.

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