L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

MARIANO DAMMACCO E SERENA BALIVO: "La forza di "Esilio" è parlare al presente"

Nasce nel 2009, nell’alveo di un percorso di ricerca teatrale intrapreso dall’attore-autore-regista e pedagogo teatrale Mariano Dammacco assieme ad alcuni giovani artisti, tra cui spiccò subito la talentuosissima interprete Serena Balivo, quella che è oggi la Piccola Compagnia Dammacco, una delle più interessanti realtà creative e produttive della scena contemporanea nazionale. Tre gli spettacoli originali che hanno portato alla ribalta di pubblico e critica l’articolato impegno artistico della Compagnia (a cui, oltre a Dammacco e Balivo, si è aggiunta in un secondo tempo la disegnatrice, nonché tecnico e grafico del gruppo, Stella Montesi): “L’ultima notte di Antonio” (2012), “L’inferno e la fanciulla” (2014) e il più recente “Esilio” (2016). Proprio quest’ultima produzione verrà presentata sabato 10 febbraio ore 21.15 al Teatro Europa, dopo aver raccolto, dalla data del suo debutto, una lunga serie di riconoscimenti e premi (ne citiamo tre su tutti: Miglior Spettacolo Last Seen 2016, Primo Premio al Festival Teatrale di Resistenza Museo Cervi 2017, Premio Ubu 2017 a Serena Balivo come Miglior Attrice Under 35). Un lavoro sensibile e attento sulla scena e nella drammaturgia, che la Compagnia ha portato avanti, fin dall’origine, percorrendo due traiettorie similmente urgenti: quella, appunto, improntata all’ideazione e preparazione di spettacoli e quella orientata alla conduzione di percorsi laboratoriali sviluppati nel contesto partecipativo proprio del Teatro Sociale e di Comunità.

Quale idea di teatro persegue la Piccola Compagnia Dammacco ? “BALIVO- Se dobbiamo definirlo in breve, possiamo dire che lavoriamo per un teatro fondato sulla drammaturgia originale e sul lavoro d’attore, che possa parlare e comunicare a ogni spettatore attraverso una trasfigurazione poetica della realtà.”

“Esilio”, lo spettacolo che presenterete al Teatro Europa, è uno dei vostri maggiori successi, molto applaudito sia dal pubblico che dalla critica. Qual è la sua forza? “DAMMACCO- Sarebbe interessante chiederlo agli spettatori. Da parte nostra, sappiamo ciò che abbiamo provato a seminare in questo lavoro: la scelta di una narrazione del nostro vivere oggi non mediata da testi classici o dalla riscrittura di un mito o di un’opera letteraria. Credo che questa scelta di parlare proprio dell'oggi attraverso un linguaggio affine all’uomo moderno, sia stata molto apprezzata dagli spettatori e così pure dagli operatori teatrali. E’ importante dire anche questo: il bel viaggio che “Esilio” sta compiendo vive del lavoro della Compagnia sommato al lavoro di donne e uomini di teatro che in vari ruoli e secondo varie identità nella comunità teatrale permettono l'incontro tra questo spettacolo e il pubblico. Credo, inoltre, che siano state apprezzate le formule espressive adottate per creare lo spettacolo: allegoria, umorismo, surrealismo, lavoro d’attore perché siamo tutti sempre più spettatori della realtà, della realtà così com’è e, forse, “Esilio” restituisce ad alcuni il piacere di ascoltare e guardare una lingua e un corpo "altri", seppure molto vicini.”

“BALIVO- Sì, credo che “Esilio” sia amato perché tenta di portare sulla scena un discorso drammaturgico fortemente radicato nel presente, offrendo, quindi, una preziosa possibilità allo spettatore di riconoscere se stesso e la propria esperienza di vita in ciò che vede agire sulla scena.”

Tema della perdita del lavoro ma ancora di più tema della perdita d’identità quale sua devastante conseguenza. Come si affronta un tema così delicato sul piano narrativo e registico ? “DAMMACCO- Posso raccontare come lo abbiamo affrontato noi: abbiamo rinunciato a dare informazioni e dati sul tema del lavoro. Siamo stati molto attenti a non addentrarci nel territorio della rivendicazione e della rabbia, sentimenti invero molto diffusi in questo momento riguardo al tema della perdita del lavoro e, forse, addirittura intorno al tema del “lavoro” tout court, se pensiamo alla radicale trasformazione del concetto stesso di lavoro e del rapporto tra individuo e lavoro, così come stiamo vivendo in questi anni.”

Un testo bellissimo, denso di significati e immagini, ma dicevate anche un grande lavoro attoriale, in particolare per Serena. Perché la scelta dell’interpretazione en travesti ? “BALIVO- E’stata una decisione dettata dalla volontà di creare una distanza tra la realtà della vita quotidiana e la vita che scorre in scena; risponde alla nostra ricerca poetica, tesa a tradurre la realtà in una visione, in una immagine, e non a rappresentarla in maniera mimetica”.

“DAMMACCO- Spesso a teatro, accanto alle fondamentali linee guida e alle strategie drammaturgiche o sceniche che si decidono a tavolino attraverso processi intellettuali, riflessioni approfondite e ponderate considerazioni, molte delle soluzioni adottate accadono in ascolto della vita sulla scena. Così, durante il lavoro di preparazione di uno spettacolo si percorrono varie strade finchè si scopre che una di queste vie intraprese riesce a generare una figura in scena che raggiunge grazia ed efficacia, che è capace di realizzare un contatto emotivo. In questi casi, è il lavoro sulla scena che ci parla e ci indica quali scelte compiere. In “Esilio” sono entrate in gioco entrambe le componenti: quella del ragionamento e quella dell’ascolto in scena”

“Non bisogna aspettarsi troppo dalla fine del mondo. Nel destino di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui. Si chiama disperazione” cita una incisiva battuta dello spettacolo. La formula teatrale può suggerire una via di fuga ? “DAMMACCO- In “Esilio” la disperazione è la fine del mondo dell'individuo ed è, quindi, innanzitutto uno sguardo su un incommensurabile dolore, ma nel discorso drammaturgico dello spettacolo e nelle nostre intenzioni c'è altro: in talune letture ho incontrato una sorta di accezione positiva del concetto di disperazione. Si tratta di interpretare la disperazione come una forma di lucidità che non finisca necessariamente con la mortificazione dell'identità umana, bensì con il suggerire che lo stato delle cose intorno a sé, o magari dentro di sé, non è buono e non lo sarà neanche in futuro se non siamo noi per primi a cambiare qualcosa. E’ quasi una disperazione utile, necessaria per prendere lo slancio all’azione, per cercare di mutare lo stato delle cose in cui ci si trova e che non si può più accettare. La disperazione non è l’attitudine alla lamentela, comportamento infruttuoso, a mio modesto parere, e non è nemmeno la rassegnazione. La disperazione reca una mancanza di speranze, è vero, ma questo non sempre è un male se, ribaltando la prospettiva, pensiamo che le speranze possono anche trasformarsi e ricomporsi in un luogo della mente, legato al sogno, all’attesa, all'inazione. Insomma, viva la disperazione se ci porta ad essere critici, a vivere, e di nuovo ad agire.”

Al di là del tema toccante e profondo da cui prende avvio, questo monologo a due voci si gioca tra uno straniante surrealismo e un’amara ironia, molto emozionante. E’sulla scia di questa cifra stilistica che, piano piano, l’Uomo della partitura originale è diventato per tutti Omino? “BALIVO- Sì, credo che qualcosa nel lavoro di preparazione di “Esilio” abbia, infine, condotto alla nascita di una figura teatrale che sa farsi voler bene in modo autentico, sincero, vivo. Una volta, dopo una replica, uno spettatore mi ha chiesto se poteva abbracciarmi perché voleva, in qualche modo, abbracciare la figura di Uomo; la tenerezza e l’empatia che questa figura ha saputo suscitare ha portato ad Omino. E’ stato un passaggio naturale arrivare a questo nome ed è così che tutti, spettatori, giornalisti e critici, ora lo chiamano”.

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