La recensione

SEMPRE DOMENICA

CON: Federico Cianciaruso, Fabio De Stefano, Riccardo Finocchio, Martina Giovannetti, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero

REGIA: Clara Sancricca

PRODUZIONE: Compagnia Controcanto Teatro

T’immagini, se da domani davvero tutti quanti smettessimo…t’immagini, se fosse sempre domenica, tu fossi sempre libera….fantasie, fantasie che volano….favole……favole… Le parole della nota canzone di Vasco Rossi, “T’immagini”, racchiudono in parte il senso, oltre che il titolo, dell’intelligente spettacolo firmato Controcanto Teatro, e già vincitore del Premio In-box 2017, a cui il sempre nutrito pubblico del Teatro del Cerchio ha tributato sinceri e lunghissimi applausi.

Un lavoro teatrale congeniato sia per divertire- strizzando l’occhio agli stilemi cinematografici propri della commedia all’italiana, in particolare alla corrente romana, imperniata su schiettezza popolare e sferzante verve sarcastica - sia per accendere l’attenzione su una vexata quaestio condivisa da molti e imprescindibile a troppi: conciliare lavoro e tempo personale, realizzare quella consonanza, spesso utopica, tra un mondo fatto di contratti, orari prestabiliti, produttività e un altro governato dai sogni, dalle aspirazioni private, dai sentimenti. Il desiderio non basta a ricomporre la frattura tra il sé privato e quello pubblico, legato alla sfera professionale, e tutto sembra insistere su una disarmata rassegnazione.

L’immobilismo di una situazione accettata così, “sub specie aeternitatis”, si realizza in scena nella composizione frontale di una fila di sei sedie, ognuna diversa per stile e colore, come a volere declinare anche matericamente l’eterogeneità del vissuto che le occuperà. Su di esse vanno a sedere i caratteri, immoti, inerti, quasi inchiodati in quella posizione e statici nello sguardo, emblemi di un’umanità sfranta che si accende all’improvviso, nella sola interazione verbale e che subito ci conduce all’esplorazione di una quotidianità ben nota, intrisa di vivido realismo.

Le parole aprono scenari comuni di dialogo: davanti a noi troviamo persone giovani (del resto gli stessi attori chiamati non superano la trentina) che si sforzano di sopravvivere nel mondo del lavoro, che si affannano per non sprofondare nel mare magnum di fallimenti, controversie, colloqui, si ingegnano per migliorare la qualità della propria esistenza e, soprattutto, provano a lottare per conquistare quella frazione di libertà da sempre sacrificata, volente o nolente, alla necessità del “guadagnare per vivere”. Ma, appunto, provano e solo a parole. L’azione vera è interdetta, non abita lo spazio scenico e nemmeno quelle vite che si raccontano affidandosi soltanto all’intreccio di dialoghi dal ritmo prima cadenzato, misurato, intervallato da piccole pause, veri e propri spegnimenti dell’Essere, e poi sempre più incalzante, pervasivo, coinvolgente, sfociando, infine, in un continuum verbale che sfuma da personaggio a personaggio, da storia a storia.

Troviamo così il giovane fattorino che vorrebbe aprire un bed&breakfast, il marito con velleità imprenditoriali inappagate, il neo laureato indeciso sul suo futuro, l’impiegata che perde sé stessa nel lavoro, il neoassunto operaio costretto a piegarsi a un contratto capestro, il segretario di un albergo vessato da un cliente esigente. Trame che a loro volta si moltiplicano tra esigenze private, insoddisfazioni profonde e aspettative tradite; si intersecano intelligentemente e abilmente (anche grazie ad interpreti fenomenali nel governare tempi di battuta e differenti registri espressivi), generando visioni altre, nuovi squarci di vita, emozioni inaspettate, svolte inattese e amplificando la portata valoriale del fil rouge- l’umanità piegata al dovere- che tutto percorre e lega.

Polifonia di voci e destini, orchestrata in modo attento e calibrato, per tradurre, in una formula teatrale ridotta all’essenzialità di una scena fissa sorprendentemente avvincente, quel sentimento di lotta di classe realmente diffuso, percepito, condiviso, ma che resta, tuttavia, sullo sfondo, un principio senza risoluzione. E’ anch’esso un rovello che consuma energie e causa sofferenza, miseria, disistima, che può esplodere in un canto di ribellione, intonato a squarciagola, ma che nella realtà implode e si esaurisce, perlopiù, nell’ironia tragica, amara, vera di chi conosce l’ineluttabilità della propria condizione.

Parlare, discutere, sognare, cantare forse è l’unica maniera, evocata nella finale, straniante, dissolvenza di luci e parole, per resistere a un sistema che assorbe le nostre esistenze, snaturandole, privandole di entusiasmo e slancio. Ma anche trovare il tempo per applaudire uno spettacolo così pieno di vis comica, bravura, acume e umana verità, può costituire una valida occasione per riscoprire amore verso noi stessi, le nostre debolezze, i limiti, le disillusioni, i sogni infranti e rispecchiarci in una più vasta complessità di tormentate "affinità collettive."

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