La recensione

LORO- STORIA VERA DEL PIU' FAMOSO RAPIMENTO IN ITALIA

DI E CON: Maurizio Patella

PRODUZIONE: Scarlattine Teatro e Kilowatt Festival

Tra teatro di narrazione di matrice comica e stilemi del teatro di figura tradizionale. In bilico tra i vezzi creativi di una manifesta finzione favolistica, presentata come gioco pazzo tra bambini, e la lucidità della telecronaca dettagliatamente documentata e resocontata. Forse proprio per l’assenza di un carattere identitario a far da radice, che avesse, alfine, la forza di veicolare consapevolmente ed efficacemente un messaggio, uno spunto di riflessione costruttivo, una domanda pregnante, lo spettacolo di Maurizio Patella “Loro-Storia del più famoso caso di rapimento alieno in Italia”, presentato alla rassegna “Spazi d’ozio”, ha avuto il merito (e parziale demerito) di insinuare tanti dubbi ma perlopiù inessenziali. Senza nulla togliere alle felici ed originali intuizioni scenografiche, volte a restituire una dimensione ludica e a definire gli opportuni riferimenti temporali e geografici (nell’uso di giocattoli meccanici, soldatini e macchinine da collezione, funzionali scatole di cartone, vecchi registratori e televisori analogici d’antan), e pur riconoscendo all’interprete un coinvolgente virtuosismo affabulatorio e una indubbia abilità nel governare, al passo dell’avvincente ma bislacco racconto, i tanti oggetti in assito, quel che prevale è il senso di un mero intrattenimento fine a se stesso, volutamente ma inutilmente straniante. Si sorride a più riprese nell’ascoltare la storia del metronotte genovese Piero Zanfretta che nel freddo dicembre del 1978, durante il consueto giro d’ispezione di alcune ville della Val Bisagno, fra Montebruno e Torriglia, fu rapito, disse lui, da esseri alieni, alti circa tre metri, e che divenne poi un vero e proprio caso mediatico. Ed è, altresì, impossibile non subire la fascinazione degli effetti speciali, anche quando, come qui, sono intenzionalmente semplici, infantili e apertamente dichiarati – visivamente convincenti e accattivanti le ricostruzioni in scala dei viaggi di Zanfretta, del saliscendi della Fiat 127 in miniatura sospinta da Patella, a fari accesi, nel buio improvviso, su cartoni impilati in colonne, quali fossero stazioni di un percorso nell’illusione e in una graduale perdita di coscienza e ragionevolezza- calati congiuntamente nel bel gioco di luci e nell’accompagnamento musicale, evocativo di atmosfere “Ai confini della realtà”. Ma cosa c’è oltre quella commistione di piani stilistici ? Cosa si muove in quella penombra ingenerata dalla compresenza, traslata teatralmente, dell’elemento umano (l’attore) e di quello extra-umano (i tanti, divertenti artifici scenici) ? In un crescendo grottesco e surreale di situazioni inverosimili, seppure in parte testimoniate, di figure goffe e bizzarre, di alieni con la testa a strobosfera, di sedute ipnotiche e siero della verità, si finisce per rimanere travolti dall’aspetto visionario, fantascientifico, caricato di epicità, del sensazionale fatto di cronaca, a scapito di più ardui rimandi alla coeva realtà italiana, tragicamente terrena, degli anni di piombo e della lotta armata, che poteva essere più acutamente rievocata. Questa resta solo sfiorata, evanescente sottotesto del plot centrale, anche quando si ricorda il rapimento di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi da parte dell’Anonima Sarda, esplicitato in un inevitabile richiamo allusivo al rapimento di Zanfretta. “Credere o non credere non vuol dire niente” pare sentenziare una battuta, offrendo così una plausibile ma insolita e troppo timida chiave di lettura, che non dipana le perplessità conclusive sulla completa buona riuscita dello spettacolo, capace, comunque, di strappare applausi sinceri. E così pure qualche fugace sguardo sospetto al firmamento. 

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