L'occhio di riguardo

Una sezione affidata alla buona volontà e cortesia di illustri protagonisti della scena teatrale che hanno accolto l'invito a scrivere un commento, una riflessione, un pensiero sul Teatro di oggi, partendo dal racconto della propria personale esperienza con la realtà artistica parmigiana. Uno spazio di libera espressione per uomini e donne di teatro che possa essere significativo, stimolante ed esemplificativo per lo spettatore del presente.

 

LINO GUANCIALE -"QUELLA MATTINA AL LICEO ULIVI..."

(Qui le belle parole di Lino Guanciale, straordinario attore di prosa, noto anche al pubblico televisivo, in cui racconta dei suoi trascorsi parmigiani e di quanto questi abbiano significato per la  sua crescita personale ed artistica)

"Gli anni dell'apprendistato non finiscono mai", ripeteva spesso nei suoi scritti e nelle pubbliche dichiarazioni Edoardo Sanguineti, poeta, maestro e amico con il quale ho avuto la fortuna di condividere un pezzo della mia strada. All'epoca in cui iniziai a sentirglielo dire personalmente, l'epoca in cui cominciò a dirlo personalmente a me, quanto avesse ragione riuscivo a intuirlo già, ma astrattamente, come si conviene forse a chi non ha ancora abbastanza anni sulle spalle... E oggi che sulle spalle qualche peso in più "riposa", questa semplice frase, di matrice Goethiano-Brechtiana, è diventata uno dei cardini della mia personale deontologia, oltre che un motto esistenziale – non ultimo perché riuscire a pensare a sé stessi come "eterni apprendisti della vita", come il caro Castorp del "mago" Thomas Mann, credo aiuti a mantenersi giovani...

Senza dubbio è in virtù di questa convinzione che continuo a costruire i calendari di lavoro partendo dalle esperienze in campo didattico formativo: prima vengono i laboratori e i corsi – per lo più legati ai progetti del gruppo teatrale di cui faccio parte, oggi impegnato nel progetto Carissimi Padri a Firenze –, poi vengono gli spettacoli e poi i film...

Questo incaponimento pedagogico non ha un fondamento missionariale, ahimè! La fissazione per la didattica risponde, in realtà, ad un'istanza profondamente egoistica... io imparo più cose insegnando di quante ne impari in qualunque altro contesto o situazione. È dunque per me che insegno. Per diventare un artista migliore e più attento, e un uomo più capace di ascoltare gli altri e sé stesso. In molte culture, non a caso, non esiste la differenza tra la parola insegnare e apprendere, come a significare la mutualità del circuito relazionale e comunicativo tra docente e allievo.

L'esperienza concreta di questa deliziosa dinamica docente/allievo ha un anno zero, per me, un momento esatto di innesco e un luogo preciso in cui situare la "scena del delitto": Parma, Liceo Ulivi, anno scolastico 2006/2007, novembre più o meno... Mi capita di tenere la mia prima lezione-spettacolo di fronte ad una folta platea di imberbi studenti, oggetto della tenzone il Giulio Cesare di Shakespeare. Dal Teatro Due, per cui all'epoca ero scritturato, mi avevano mandato a presentare uno spettacolo in replica in quel periodo nella Sala Grande, e con Claudio Longhi, regista mio compagno di strada e fratello di scena, avevamo deciso di testare una nuova formula promozionale: che succede se a parlare di un autore X è direttamente un attore, poi impegnato anche a recitare dei frammenti delle opere Y e Z del suddetto? Non sarà forse che i ragazzi riescano ad appassionarsi di più ai fatti teatrali illustrati, se a "insegnare" loro la grammatica per comprenderlo e goderlo appieno è un professionista del palcoscenico – che poi quegli stessi studenti potranno vedere in scena, innescando così un virtuoso scambio tra aula didattica e sala teatrale? L'idea ci pareva buona e la vittima designata ideale del test ero io, in quanto ritenuto in grado sia di recitare che di "parlare" decentemente...

Beh, credo di non aver mai avuto tanta paura nella mia vita come nelle ore precedenti quell'incontro. Mi terrorizzava il giudizio dei ragazzi, quello impietoso dei docenti, dubitavo fortemente della mia capacità di tenuta psicologica davanti a una platea di giovani facce tendenzialmente annoiate dal tono di voce e dalle parole spesso autocompiaciute del conferenziere di turno – ricordavo me stesso a quell'età puntare il laser del mio portachiavi verso gli occhi di quei boriosoni ciclicamente somministratici dalle insegnanti di lettere e filosofia, me ne ricordavo bene... e avevo il terrore di trovare tra quelle giovani testoline un me stesso in incognito pronto a colpire...

Eppure qualcosa mi attraeva verso quell'aula magna gremita e già rumoreggiante come una fossa dei leoni in scala. Mi trovavo allora in un momento di stallo della mia crescita artistica, come periodicamente avviene a chi fa mestieri simili al mio, in cui di giorno in giorno si è condannati a dover alzare sensibilmente l'asticella e tentare di spostare avanti i propri limiti esplorando nuovi registri espressivi, con l'obiettivo di non trovarsi a fare passi indietro da gigante... perché nell'arte, forse più che altrove, vale la regola che se ti fermi ti perdi, ti annacqui, svanisci...

Bene, io sentivo che da quella mattinata dipendeva un bel pezzo della mia convinzione di poter crescere, che andavo incontro a una grande opportunità. Solo confrontandosi e scontrandosi con lo spettatore un attore impara cose nuove di sé e del suo lavoro, solo il corpo a corpo con la platea affina la capacità di ascoltare – quella più di tutto – ascoltare il respiro di chi si ha davanti, in modo da poterlo conquistare e accompagnare verso nuovi territori e spazi di conoscenza.

Infarcito delle più svariate letture sull'argomento, dal Fiore del teatro Nō di Zeami alle memorie di Petrolini, Viviani, Valentin, Brecht, salii in pedana per vedere se mi aspettava il lancio del proverbiale "gatto" (Roma di Fellini, cit.) o se sarei stato in grado di sopravvivere. La salivazione azzerata, le spalle vicinissime alle orecchie come si conviene a chi è mangiato dall'ansia di prestazione, la camicia già madida di sudore, iniziai a parlare presentando il mio nome e cognome – l'ideale per chiamarsi addosso degli sfottò potenzialmente micidiali! Ma tant'è, ci pensai a cose fatte –, e quando già mi pareva di averli ammazzati di noia col solo suono della mia voce titubante, un pensiero mi attraversò la mente: "Parlagli come avresti voluto che un attore ti parlasse quando avevi diciassette anni... non eri così stupido: fidati di te!" ... allora feci in modo di trovare dove fosse appostato il me stesso armato di portachiavi laser, lo trovai travestito da teen ager parmigiano ciuffomunito e già pronto allo sbadiglio aggressivo, e feci la cosa più naturale del mondo: lo salutai e gli chiesi cosa fosse il teatro per lui. La domanda lo spiazzò, spiazzò in realtà tutti i giovani convenuti, e ancora più spiazzante fu forse il fatto che io non avessi alcuna fretta di avere risposte, che non ne avessi una giusta nella manica della mia camicia e che scherzassi con lui in modo da farlo ridere, smontare il suo disagio... "Tranquillo! La risposta azzeccata non c'è, non è un quiz... voglio sapere solo cosa pensi tu. Prenditi il tempo che vuoi e dimmi pure una boiata. Certo, magari entro Natale!"... non me ne accorgevo, ma già mettevo in atto una strategia precisa attraverso questa via soft alla sdrammatizzazione dell'interrogazione. Ridevano gli studenti, come si ride a quell'età se a prenderci un po' in giro è uno che non ha l'ansia di dimostrarsi più colto ed esperto e maturo di noi, uno che non ti impone il suo sapere come un dogma, ma negozia con te un percorso interattivo, in cui non è detto che la cosa più intelligente sia proprio lui, l'insegnante dico, alla fine a tirarla fuori.

Sto divagando, mi rendo conto! Ma credetemi, è l'entusiasmo che quella giornata rievoca in me anche dopo tanti anni a costringermi a parlare e parlare e tentare di ricostruire tutta la catena dei piccoli e grandi fatti – i primi sorrisi degli studenti, i loro occhi che principiavano a riempirsi di interesse, i gomiti appoggiati sul banco e il mento sulle mani in posizione di ascolto ricettivo – che quella mattina mi regalarono una nuova dimensione della considerazione di me stesso, della mia capacità di istituire con gli spettatori un dialogo costruttivo, pur sempre al limite della performance, permettendomi di recitare in modo nuovo, meglio di come mai fino ad allora mi fosse capitato. Alternavo spiegazioni teorico-critiche a brani recitati, e la commistione non aveva nulla di forzato, passavo dalla spiegazione alla recitazione, alla interazione divertita con i ragazzi come se non avessi fatto null'altro che quello in vita mia...

Quella mattina, da quell'aula, dopo l'applauso finale che seguì l'esecuzione da parte mia del monologo di Antonio sulle spoglie di Cesare, gran finale della lezione-spettacolo, uscì un attore nuovo, a cui i ragazzi avevano iniziato ad insegnare cosa ci voleva per riuscire a prendere la loro fiducia e conquistare il loro ascolto di futuri frequentatori delle sale teatrali. Usciva un attore più confidente nelle proprie qualità di intrattenitore e allo stesso tempo convinto di poter reggere il ruolo del maestro. E soprattutto un attore convinto che quell'idea fissa per la quale solo fornendo al pubblico gli strumenti culturali per partecipare attivamente allo spettacolo si può sperare di riempire nuovamente le poltrone orfane dei nostri teatri, fosse un'idea giusta. Molti studenti affollarono le repliche dello spettacolo, il Teatro Due diede l'avvio a un nuovo protocollo di relazione con le scuole che dura ancora, e che ha sempre corroborato sensibilmente la presenza di pubblico in sala, Longhi ed io inaugurammo la stagione dei nostri progetti di teatro partecipato, insomma: quella mattina all'Ulivi fu gravida di conseguenze, sia interiori che esteriori.

Mi ricordo che dissi a me stesso: "Un bel tortello dalle Picchi, ora, per metabolizzare!". Camminavo per via Farini a un metro da terra, e guardavo il mondo e le cose con una determinazione decisamente nuova. Ero cresciuto un poco, e ne avevo coscienza – sì, esistono dei momenti in cui si ha la netta percezione di fatti simili... un po'come da piccoli se si fa attenzione ci si vede sempre più alti nello specchio.

Ancora oggi, nei periodi più tristi, quelli che periodicamente vengono a turbare il paesaggio già scabro della mia fiducia in me stesso, ripenso a quella mattina, a come era bella via Farini, a come Parma mi cambiò la vita e la testa. A come tante cose di me oggi siano partite dritte dal lungoparma, più o meno dieci anni fa.

Lino Guanciale

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