La recensione

CASSANDRA O DEL TEMPO DIVORATO

DRAMMATURGIA: Elisabetta Pozzi (con il contributo di Massimo Fini)

CON: Elisabetta Pozzi

REGIA: Elisabetta Pozzi

PRODUZIONE: Fondazione Teatro Due

Se qualcuno ancora dubitasse della forte risonanza che, in termini empatici e cognitivi, il mito classico sempre sa produrre nello spettatore moderno, dovrebbe ricredersi andando ad ammirare quel concentrato di puro talento performativo, espressivo e vocale che è Elisabetta Pozzi nella sua “Cassandra o del tempo divorato”. Proprio “sua”, perché la grandissima attrice, qui anche drammaturga, in scena al Teatro Due dal 12 al 15 maggio, ha attinto dalla figura classica così come descritta da Omero e nei testi di Eschilo, Euripide, Seneca, ma ispirandosi anche a memorie letterarie più recenti (da Christa Wolf a Wislawa Szymborska) ha dipinto con pennellate indelebili una profetessa oltremodo contemporanea, riuscendo a conferire all’archetipo l’umanità di un corpo e l’unicità di una voce in cui ben si riconosce il suono di una verità universale. Una verità tragica e disperata questa di Cassandra, a cui Apollo conferì il dono della chiaroveggenza, insieme alla condanna di non essere mai creduta e che, tra le figure femminili del mito greco, è forse quella che meglio incarna un profondo senso di solitudine, un drammatico isolamento interiore e la straziante impotenza di sostenere il peso di un Sapere non condivisibile. Su una scena costellata di cornici di legno, ad oggettivazione di un racconto di cui non esiste fermoimmagine poichè decontestualizzato spazialmente e cronologicamente, si muove questa eroina tragica, dapprima in abiti sportivi contemporanei (una larga felpa, pantaloni militari e scarpe unisex di tendenza), in quell’incipit straniato, recitato con ricercata freddezza e finto distacco, fra noia, incredulità e percepibile turbamento, che va a dissolversi in un lamento lontano, subito raccolto dalla musica (straordinario il tappeto sonoro creato da Daniele D’Angelo, fra note rock, sonorità epiche e melodie “progressive gothic”, a sostegno della drammaturgia, degli “attacchi” vocali e delle precise movenze coreografiche). Sapienti giochi di luce, fanno, alfine, risorgere il mito, una figura più affine a quella classica, anche nelle vesti, e con lei la sua storia fra Troia e Micene, fra la lucidità della conoscenza e la docile follia per il suo essere da tutti schernita. Ma Cassandra sa e dice, manifestandosi attraverso la potenza fisica inesauribile e l’intensità verbale inarrestabile della meravigliosa interprete. Invoca, grida, freme, vibra, lotta e incalza nell’affermare la verità e, così pure, l’inevitabile, incontenibile dolore che quell’intima e certa consapevolezza comporta . Ogni singolo vocabolo si carica di significato e viene pronunciato come un dettaglio irrinunciabile e irripetibile all’interno di un racconto che “nel principio ha la sua fine”, nella storia di una figura femminile “gravida dell’umanità intera”. Pesanti moniti riecheggiano fra le sue parole, quelle del re Agammenone, che la rapì quale bottino di guerra, e le ingannevoli trame della regina Clitemnestra (tutte abilmente rese nella diversa modulazione della voce e nell’attento cambio dei registri interpretativi). “Come si può essere così ciechi ?” ripete Cassandra. Come si può non comprendere che, in ogni tempo, ogni città introietta un virus, ingannata da un “cavallo di Troia” sempre diverso ? La sfrenata crescita economica di oggigiorno, senza più rispetto per l’ identità umana, non è già forse una metastasi in seno ? Cassandra canta di parole nefaste e di “una foglia verde dal gusto amaro”, presagio di una ineluttabile simbolica analogia fra il proprio sventurato destino di sacerdotessa stuprata nel tempio e lo stato attuale della Natura, anch’essa “violentata e messa ai ceppi”. In un crescendo emotivo e sonoro perfettamente restituito all’unisono e sostanziato in elementi fortemente evocativi, si snoda la parte conclusiva: l’enunciazione di nuove funeste profezie, in realtà già avverate e qualificanti i mali e i problemi della nostra società, svela tutta la tragedia dell’uomo contemporaneo. Ogni cosa lascia un segno in quel “tempo divorato” che scolora la sequenza del “prima e dopo” perchè “il futuro ha radici nel passato e il suo seme è ogni istante del presente”.

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