L'occhio di riguardo

Una sezione affidata alla buona volontà e cortesia di illustri protagonisti della scena teatrale che hanno accolto l'invito a scrivere un commento, una riflessione, un pensiero sul Teatro di oggi, partendo dal racconto della propria personale esperienza con la realtà artistica parmigiana. Uno spazio di libera espressione per uomini e donne di teatro che possa essere significativo, stimolante ed esemplificativo per lo spettatore del presente.

 

FRANCESCO PITITTO: "Cosa è Teatro e cosa non è Teatro"

(Un prezioso contributo autografo di Francesco Pititto, Direttore Artistico di Lenz Fondazione)

"Tempo fa ho letto un post di Simone Derai di Anagoor in cui era scritto: “È da quando ero ragazzo che sento dire "questo non è teatro". A tal punto che la sua irriducibilità, la sua avversione ad ogni definizione sono a mio parere la sua autentica grandezza, e l'unica certezza. All'inferno tutti i mortificatori di visioni”.

D’impulso ho risposto, visto che toccava una corda tesa da anni: “E se ‘questo non è teatro’ allora cos'è? Penso sia la stessa domanda che J.M.R. Lenz rivolse a Goethe, alla fine del Settecento, a proposito del suo teatro. È storia ardua e lunga, infinita. Catharina von Siena docet_” Mi riferivo ai nostri inizi, quando probabilmente Simone era adolescente.

E potevo risalire ancora all’indietro, al nostro “La morte di Empedocle” da Hölderlin, quando avevamo scritto il testo completo dell’opera incompiuta su ogni muro della sala Majakovskij di Lenz, o quando l’avevamo frammentato tra Lenz Teatro, il Teatro di Fontanellato e il Teatro Verdi di Busseto ancora cantiere: anche allora avevamo sentito dire “questo non è teatro” e molto spesso da “gente di teatro”. La questione non ci riguardava, era dagli anni ’60 che il linguaggio teatrale si era alimentato d’altro, aveva superato di prepotenza i confini dello specifico teatrale. Soprattutto in Europa. Non vorrei iniziare l’elenco infinito dei maestri e delle esperienze, soprattutto di quelle appartenenti all’area performativa della body-art, o della musica sperimentale, delle arti visive dal vivo, dei reading poetici dove il corpo dell’artista era parte integrante della composizione formale. Poi le molteplici situazioni che potevano essere ricomprese nella parola “teatro”, non era forse teatro la passeggiata degli astronauti statunitensi sulla Luna? Fino ad allora la luna era solo indagata dalla scienza o contemplata, oggetto di drammi e tragedie, per rispecchiamenti poetici e stimoli drammaturgici ma, dal quel momento in poi, sarebbe diventata materia, suolo, terra calpestata a piccoli salti da tute bianche in rallenti, contenenti corpi, con le loro articolazioni e cervelli veri. Certo erano immagini virtuali, mai arrivate da così lontano con esseri umani, ma profondamente reali, sequenze di una indimenticabile performance reale. Teatro, senza parole, nel silenzio lunare.

Possiamo sconfinare, immaginare, fare di una visione il nostro teatro reale, ma soprattutto in Italia il “teatro” si è continuato a pensarlo come palcoscenico, recitazione, non necessariamente accademica perché di esempi di grandi attori anche di grande coraggio innovativo - vedi Leo de Berardinis, Carlo Cecchi o Carmelo Bene - sono piene le pagine di critici e studiosi ma sostanzialmente è all’Attore, nel migliore dei casi, che si pensa; e che si continua a pensare, a pretendere che ci faccia emozionare, partecipare, pensare. Poi, soprattutto da metà ’60 inizio ’70 in Italia, Germania e Francia il teatro ha assunto un significato più ampio, soprattutto per merito di grandi registi (Grüber, Stein, Brook, Mnouchkine solo per dirne quattro tra loro diversi) insieme alla capacità di grandi attori-autori di rispecchiare in toto il loro pensiero, la loro filosofia sul significato di teatro. Non sono stati molti però, qualche decina, mentre il teatro di oggi rappresenta una moltitudine di artisti che, a vari livelli, continuano a proporre vie differenti, da un contesto più tradizionale a quello più sperimentale. Così come tanti spettatori si formano su diverse esperienze di relazione e fruizione, in molti casi di fedeltà ad un luogo, ad una compagnia.

Questo mi porta a dire, e lo abbiamo più volte scritto, che non esiste il teatro ma esistono i teatri, da quello tradizionale con le figure centrali autore-regista-attore a quello che, paradossalmente, può tenere l’attore o il danzatore fuori scena. La definizione al plurale rispecchia maggiormente la differenza del linguaggio che si applica, qualche volta anche alternativo nel suo proporsi, addirittura in alcuni casi antagonista. Penso che, appunto in quanto arte, il teatro possa concedere la più ampia libertà espressiva. Far rientrare nel gioco la filosofia, la scienza oltre alla poesia, all’immagine. Negli ultimi vent’anni la ricerca scientifica ha rivoluzionato la nostra stessa idea della materia, dell’Universo e delle cose e quindi della vita, ci parla di principio di indeterminazione e vogliamo pensare che il teatro sia solo quello che sta tra quattro pareti? o tra quattro mura di un monumento? O nella bravura di un grande attore o attrice? Non ho più ritrovato in nessun grande attore o attrice la stessa Grazia di cui scrive Kleist, se non nel gesto, nel dire, nello stare di un’attrice come Barbara (Voghera), per la quale non esiste quarta, quinta o sesta parete in cui stare. Quando ho scritto “Io qui o io non qui” per lei, è perché stava davvero in una dimensione senza tempo, sul confine degli eventi si direbbe oggi. Come un Amleto contemporaneo in equilibrio precario sul margine di un buco nero.

Ma che succede se lo spettatore non è pronto? Preparato a partecipare a un rito in cui prevale il pensiero rispetto all’estro o alla tecnica? Tornerà a rassicurarsi con il teatro che più rispecchia la sua condizione, il suo desiderio, il suo immedesimarsi a distanza.

Penso, come rispondevo a Simone, è storia ardua e lunga. Sentiremo a lungo “questo non è teatro”. D’altronde continuiamo a sentire anche “questa non è musica”, questa non è danza, questa non è arte fin dal secolo scorso. Senza quel “non è” non avremmo però avuto Joyce, Cage, Lachenmann, Pina Bausch, Rothko, Godard o lo stesso Beckett.

Quella di Lenz è tutta un’esperienza possibile del limite. Dal pensare che si potesse sopravvivere anche costruendo una stanzialità all’inizio degli anni ’80 considerata impossibile in un tempo dove la tournée, il girare per teatri facendo conoscere il proprio lavoro, era l’agire più congruo, più vantaggioso. Il critico ti poteva raggiungere, e così lo studioso e così lo spettatore, ma farli arrivare a te, al tuo teatro con fatica costruito a tua rappresentazione era, appunto, considerata “mission impossible”. Abbiamo perduto l’attenzione di alcuni, ma la nostra diversità ha incuriosito altri.

Costruire la propria casa, scelta rischiosa, era però affermazione di un principio di teatro. La stessa composizione dell’opera non poteva essere ripetuta ovunque, la stessa potenza espressiva non era per ogni spazio fisico, si trattava di geometria poetica, di matematica della visione, di geografia etica, di ecologia della mente scriveva Federica (Maria Federica Maestri). Ogni luogo è lì che ti attende, devi iniziare un dialogo affinché ti possa ospitare rispettandolo, conformandoti a lui, aggiungere segni a segni preesistenti che ti indicano la via. Questo poteva essere solo nel nostro spazio - Lenz Teatro - e poi avrebbe originato l’esperienza del site-specific che pratichiamo ormai da un decennio. Il principio è però rimasto lo stesso: che il monumento non sia ma sfondo scenografico, ma elemento integrante, propulsivo della drammaturgia, dell’imagoturgia e della performance.

Tornando alla scelta della stanzialità, è stata un’esperienza dura ma da trent’anni rappresentiamo un punto di riferimento anche per altre esperienze, non siamo solo un organismo di produzione ma un centro di ricerca artistica contemporanea. Ho affermato anche in una intervista, in maniera provocatoria, che Lenz rappresenta l’unico teatro stabile della ricerca italiana. Tra Teatri nazionali, Tric, teatri di produzione e di sperimentazione e altre categorie poteva starci anche questa etichetta a riconoscimento di oltre trent’anni di storia teatrale senza soluzione di continuità.

Però tanti segnali sono arrivati e continuano ad arrivare. Essere stati selezionati dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, insieme al MiBACT, con un progetto assolutamente di ricerca (per molti certamente “non è teatro”) e che verrà presentato, per ora in video, agli Istituti culturali italiani e alle Ambasciate è motivo di grande soddisfazione e a maggior ragione creando un’opera teatrale a Parma, nel nostro spazio post-industriale. È una ricerca sull’origine, sull’inizio, ispirata a Die Schöpfungdi Haydn e a Paradiso perduto di Milton, con un testo originale ampiamente ispirato anche alle ultime tematiche di meccanica quantistica e sull’origine dell’universo.

Certo questa opportunità appare strana in un momento in cui regna sovrana la confusione su come affrontare le difficoltà attuali e su come ricostruire, come dopo una guerra, il domani. Anche questa alternativa provvisoria della relazione virtuale con gli spettatori stride con il senso stesso del teatro, di qualunque teatro e in particolare delle esperienze performative che agiscono in spazi non canonici e tramite relazioni dirette con i partecipanti. Certamente si può ricavare anche un esperire nuovo che può portare a nuove ibridazioni, come ad esempio tra cinema documentaristico e ricerca sperimentale dal vivo. Il documentario ha una storia di grande importanza in relazione alle esperienze umane ed è molto vicino, a mio avviso, all’approfondimento sulla sensibilità, sulla differenza, sul margine, temi da sempre oggetto d’indagine delle pratiche sperimentali teatrali più avanzate. Questo aspetto è stato sviluppato anche da Lenz nei primi laboratori con allievi sensibili, la documentazione visiva integrava il lavoro di formazione e alcuni risultati rappresentano una parte importante del nostro archivio.

Tutta l’esperienza con la sensibilità diventa oggi ancor più decisiva, l’aspetto del benessere delle persone e della cura sono temi che vanno di pari passo con la cultura di un Paese. In una situazione di generale drammaticità sono le persone più deboli ad essere più indifese, non c’è alternativa all’incremento delle pratiche di relazione. Il rinnovo della nostra convenzione regionale Teatri della Salute va in questo senso, così come le relazioni internazionali come il Coordinamento Italiano Europe Beyond Access o la selezione del nostro progetto Opera sull’Opera. Ogni uomo è un artista per la Cultura per tutti, cultura di tutti di Parma Capitale italiana della Cultura e dell’Istituto per i beni artistici della Regione Emilia-Romagna.

Come compensare, o perlomeno controbilanciare, il vuoto teatrale che stiamo vivendo in questo momento? Penso si debba resistere ricercando modalità differenti, con/formarsi nel senso di apprendere nuove tecniche, nuove dimensioni di lavoro determinate dalla contingenza, ridimensionarsi sull’esistente.

Il teatro deve, a mio avviso, porre domande, dubbi, mostrare la bellezza e la durezza della vita in ogni aspetto, non essere mai conciliante o conciliato, per tutti e per ognuno, il teatro è perdita, è sottrazione. Anche in una sala si è soli quando arriva il buio. La divisione in tragico e comico, con rispettive maschere, può essere fraintesa: c’è unità tra l’una e l’altra, una comprende l’altra, l’una rifrange l’altra. Come in Buster Keaton, come in Chaplin.

Una frase in questo periodo eccezionale mi ha particolarmente colpito “nemmeno durante la guerra i teatri sono rimasti chiusi”, ecco questa frase potrebbe essere, nella sua drammaticità, presa ad esempio per quel che si può fare e per quel che potrebbe veramente accadere, visto che è già accaduto. Per fortuna non siamo sotto le bombe, il momento è difficile e complicato sia nel presente che nel prossimo futuro ma non siamo in guerra.

Abbiamo molte possibilità di gestire la mancanza di relazione diretta, ci stiamo organizzando e inventando nuovi modi, sbagliamo e procediamo con e senza errori, è una condizione di ricerca alternata e continua, come la ricerca scientifica e, come per questa, quel che importa è non smettere di cercare nuove vie.

Avevamo riaperto il teatro, con successo e in sicurezza, e poi l’abbiamo dovuto richiudere. Però non ci siamo fermati, ci stiamo preparando a riaprire ancora. Vogliamo tornare a sentire di nuovo qualcuno dire “ma questo non è teatro”, e continuare a dimostrargli quanto sia invece necessario che lo sia anche per lui."

Francesco Pititto 

(Dicembre 2020)

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