L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

MARCO BALIANI: "RIGOLETTO, STORIA DI UN CLOWN TRISTE"

È un Rigoletto più contemporaneo, d’ispirazione vagamente felliniana, quello che Marco Baliani- punta di diamante del teatro di narrazione nazionale - metterà in scena sul palco prestigioso del Teatro Regio di Parma venerdì 9 ottobre, alle 20.30, nell’ambito del Festival Verdi Scintille d’Opera, per realizzazione della Società dei Concerti di Parma. Nel tempio della musica verdiana, il monologo di Baliani intitolato “Rigoletto, la notte della maledizione” risuonerà di nuove suggestioni, sicuramente più teatrali e affini al linguaggio della scena, dove l’accompagnamento musicale affidato a I Filarmonici di Busseto ( ovvero Simone Nicoletta al clarinetto, Giampaolo Bandini alla chitarra, Cesare Chiacchiaretta alla fisarmonica, Antonio Mercurio al contrabbasso, Roger Catino alle percussioni) e costruito su arie di Verdi ma anche composizioni di Nino Rota e dello stesso fisarmonicista Chiacchiaretta, saprà amplificarne il portato immaginifico. “In questo Rigoletto siamo agli inizi del Novecento, subito dopo la grande depressione del ‘29” si legge nelle note di regia di Baliani “e il protagonista è un vecchio clown appassionato d’opera, un uomo tormentato e dilaniato dal rimpianto”

Il suo Rigoletto è, quindi, ambientato in un circo, un circo di periferia, per l’esattezza. Perché questa scelta? “Amo il circo da sempre. Credo sia un posto magico, di grande fascinazione e al tempo stesso autentico, genuino. Parlo proprio del circo povero, fatto di roulotte, tendoni e persone che si spostano di luogo in luogo, e che ha al suo interno tanta umanità, tanto lavoro artistico giocato sul filo di una esuberanza mostrata, dove però la sopravvivenza è reale perché spesso i numeri e le acrobazie sono a rischio della vita. Quando ho iniziato a lavorare a questo progetto volevo trasferire la storia in uno spazio e in un tempo diversi da quelli originali, non più dunque nel Palazzo di Mantova; così facendo, guardando la vicenda da una prospettiva lontana, ho voluto renderla in qualche modo anche più spietata, più disperata. Mi sono immaginato nel camerino di un vecchio clown, ex trapezista con una gamba sciancata causata proprio da una caduta, che riversa il suo amore ossessivo, e tutto il perduto orgoglio d’artista, sull’unica figlia, anche lei equilibrista. È  in questo loro rapporto che risiede il fulcro dello spettacolo perché ho sempre ritenuto che il vero conflitto nella storia di Rigoletto fosse quello generazionale fra padre e figlia. Il pubblico ritroverà comunque i tratti salienti della celebre vicenda raccontata da Verdi, quelle medesime dinamiche, quell’intreccio, ma scoprirà risvolti inaspettati e nuovi significati. Uno scontro fra generazioni che cerco di mettere in evidenza anche nella competizione smisurata fra il vecchio Rigoletto e il giovane, aitante Duca, il trapezista seduttore della figlia”

La figura del buffone apre a un mondo di significati che inevitabilmente richiamano il tema della maschera teatrale, dell’attore, ma anche della vita umana, sempre sospesa tra tragedia e farsa. Un ventaglio di visioni e rimandi già presente nell’opera verdiana ma che forse qui, nella contestualizzazione circense, acuisce certi aspetti esistenziali più legati alla contemporaneità. È così? “Assolutamente sì e in questa ricerca di spunti ho ripreso in mano anche “Opinioni di un clown” di Böll. Il monologo è una lunga riflessione su questa tematica dell’esistenza, su cosa voglia dire recitare e vivere. Rigoletto lo dice quanto è faticoso tutte le sere andare in scena e fare quelle cadute per far ridere la gente; la sua tensione, il suo dolore, sia fisico che emotivo, non può che nascondersi al pubblico. È certamente un discorso che ha a che fare con la visione dell’attore e con il senso dell’arte teatrale. Del resto le parole di Rigoletto non fanno che porlo nella condizione costante di misurarsi con il fuori, con l’immagine di sé che regala al mondo. C’è tanta amarezza, tanto rimpianto, il dramma intimo di chi deve sempre fare i conti con la durezza della vita, ma è costretto a salire sul palcoscenico. Io stesso entrerò in scena zoppicando e semi vestito poiché il monologo si svilupperà nel corso della lunga vestizione che porterà il vecchio ad indossare il costume di scena da Rigoletto, prima di compiere la sua vendetta e arrivare al tragico epilogo”

La notte della maledizione è dunque una notte di profonda crisi interiore per Rigoletto, tempo di tormenti, inquietudini, ricordi, che trovano una loro oggettivazione in un elemento costumistico classico, la sua irrinunciabile gobba. Fondamentale per lei anche nel creare l’azione scenica, in che modo? “La gobba posticcia è caratteristica del protagonista ed è ormai connaturata alla sua fisicità, il suo tratto distintivo e riconoscibile. È però anche traduzione materica del peso morale, e non solo, che opprime l’anima e il cuore di Rigoletto. Nell’indossare il costume, e dunque anche la gobba, compierò una serie di microazioni che racconteranno il personaggio, la sua storia, e poco a poco ne sveleranno le fragilità, la sofferenza. Rigoletto arriva addirittura a parlare con quella gobba, a relazionarsi con essa. Ci tengo ad aggiungere che il costume che indosserò è stato realizzato utilizzando parti di diversi abiti da Rigoletto rappresentati in passato. È emozionante e al tempo stesso significativo per lo spettacolo che io raccolga su di me, letteralmente, un passato operistico così importante”

Questo passato lo indosserà e sarà anche in parte eseguito da I Filarmonici di Busseto. Come si intreccia la preziosa e particolare trama musicale alle parole di Rigoletto? “Ho chiesto ai musicisti di non interpretare le celebri arie verdiane come da tradizione, ma di compiere, sempre nel rispetto del capolavoro originale, una sorta di rielaborazione, dove fosse possibile percepire maggiormente l’amarezza e il dramma del protagonista. Ne è uscito un bellissimo lavoro di ricomposizione, in cui si ascolterà non solo la musica verdiana ma anche le splendide note di Nino Rota e partiture alla fisarmonica. Il passaggio recitato non coinciderà sempre esattamente con la musica che il pubblico più preparato su Verdi si aspetterebbe. Non ci si ritroverà sempre in perfetta corrispondenza e consonanza con l’opera che conosciamo, ma credo che tale scelta, anche un po’ rischiosa, sia necessaria per presentare questo Rigoletto così tormentato e implacabile, un po’ jokeriano”.

Nomen omen, pare lei stesso dichiarare nelle note di regia, col riferimento a Rigoletto che scegliendo quel nome d’arte ne accetta appunto il destino maledetto, proprio come un marchio. C’è forse qui, ancora una volta, un invito sottile all’artista, all’uomo di teatro che deve saper assumere umilmente la reponsabilità del personaggio da interpretare, del nome e della storia da raccontare? “Sì, è così. Il corpo-voce dell’attore non può portare soltanto a uno scavo psicologico, deve necessariamente farsi tramite. Ed è quello che cerco di sottolineare anche in questo spettacolo. L’interprete deve, ad un certo punto, nascondersi dietro al personaggio per permettere a quest’ultimo di diventare più forte nel tempo sospeso del teatro. È importante portare la propria esperienza nell’interpretazione, un bagaglio di memoria, di vissuto, ma non bisogna consentire all’Ego di prevaricare sulla storia. Occorre sentirsi vicini al personaggio che si sceglie di mettere in scena, ma è necessario fare poi anche un passo indietro rispetto ad esso; almeno per me è sempre stato così. Ho raccontato storie che sentivo a me vicine e ho cercato di dare loro forza vitale. Lo stesso in Rigoletto: lo sento prossimo per età, per fatica, per esperienza di vita. Ma poi lui sarà capace di risplendere nella sua storia, tragica e maledetta, oltre Marco e oltre ogni tempo”

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