L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

ANDREINA GARELLA: "Riflettiamo sulle parole, attraverso le voci di donne"

“Riflettere sul significato profondo di parole come straniero, migrante, razzismo, distanza, cambiamento, libertà, giustizia…e in esse ritrovare forme di rinascita, convivenza e dialogo in cui potersi riconoscere”. È questo il principio ispiratore che guida il nuovo progetto di Festina Lente Teatro e Vagamonde, dal titolo “Io non ho posto”, e che, commissionato dalla rassegna Verdi Off, debutterà in prima assoluta sabato 3 ottobre presso la Galleria San Ludovico di Borgo del Parmigianino a Parma, dalle 15.30 alle 19, con ingresso ogni 30 minuti per gruppi di 20 persone (replica domenica 4 ottobre, sempre dalle 15.30 alle 19). Ideatrice e regista di questa creazione, che rinnova e rinsalda la collaborazione con il Teatro Regio di Parma e che quest’anno è dedicata ad Azucena, la gitana migrante del Trovatore di Giuseppe Verdi, è Andreina Garella tra le fondatrici di Festina Lente Teatro, virtuoso esempio di compagnia da sempre volta, attraverso un’attenta pratica teatrale, all’inclusione e all’incontro fra persone di diverse culture, esperienze e vissuto emotivo.         

Un testo, questo che porterete in scena sabato, che nasce dal suono, o per meglio dire, dalle registrazioni vocali ricevute durante il lockdown. Che cosa risuona di comune in questi audio? Il peso della lontananza? “In parte sì. Abbiamo iniziato a raccogliere materiale per questo lavoro proprio durante il periodo di chiusura totale, anche perché era un modo, per noi della compagnia e per le stesse donne migranti e native coinvolte nel progetto, di sentirci più vicine e meno sole.  Così abbiamo pensato che fosse l’occasione più giusta, nella sua emergenza e drammaticità, per meditare su alcune parole importanti che fanno parte della nostra vita. Siamo partite riflettendo sul nostro distanziamento reale, sul significato di isolamento intrinseco alla situazione e siamo andate oltre. Abbiamo, quindi, lasciato piena facoltà di esprimersi su concetti come straniero, libertà e giustizia e tutte le donne che vedrete in scena ci hanno inviato messaggi vocali, ma anche scritti, di grande verità e intensità. Un corpus di parole e voci che abbiamo poi ridotto e trasformato in testo drammaturgico e che, insieme a suoni, rumori e alla musica sublime del Trovatore, diventerà la colonna sonora speciale dello spettacolo. Quei mesi in cui siamo stati tutti costretti a casa ci ha portati inevitabilmente a comprendere o comunque a sentire con maggiore partecipazione quello che molte persone, in un’altra parte del mondo, sono obbligate a vivere sempre, ogni giorno della loro vita. La libertà di movimento, che per noi è un diritto acquisito, per altri non lo è. Il lockdown ci ha ricordato tutto questo e ci ha messo in empatia con quella parte di mondo, ci ha portati a riflettere su cosa voglia dire “non potersi muovere” e dunque, ci ha ricongiunti col significato più autentico di libertà”.

Lei ha definito questi audio delle “tracce imperfette che descrivono il nostro tempo, altrettanto imperfetto”. Può l’esperienza teatrale aiutarci a correggere e ridonare alle parole il loro valore? “Credo che la nostra epoca sia ammalata di “prestazione”. A ognuno di noi viene richiesto di essere sempre performante, ma poi accade che troppe persone perdano la capacità di ascoltare e meravigliarsi. Ed è qui che il teatro arriva a salvarci: nello spazio teatrale, che è eccezionale, si può e si deve ascoltare, è un luogo dove far risuonare le parole nel loro giusto significato ma anche nei loro mille significati. La meraviglia scaturisce da questo ascolto, dal vivere un tempo, anche breve, che è pausa dalla frenesia, sospensione dalla velocità, dove le parole non corrono ma si depositano in noi. Qui il tempo si ferma con noi… ecco perché il teatro ci fa ringiovanire!”

Ma quali sono le parole giuste oggi da usare quando parliamo di migranti e rifugiati e quali quelle che occorrerebbe evitare? “Io non parlo quasi più ad esempio di migranti; preferisco chiamarli nuovi cittadini, due termini che insieme mi rimandano anche ai diritti, alle tutele, alla libertà. Queste persone fanno parte della nostra vita, aggiungono cultura alla cultura, scambiano memoria con memoria. È tempo di rinnovare il linguaggio e la comunicazione con cui ci rivolgiamo a questi uomini e donne. Il nostro futuro non può che passare per il dialogo, il confronto e per un concetto di accoglienza che non sia solo espressione di una visione utilitaristica, invocato ogni volta quando si parla di lavoro o servizio. Quello su cui dovremmo concentrarci ed insistere è l’accrescimento sociale in termini culturali che questo movimento di popoli reca in sé”.

Nell’opera verdiana Azucena è una figura dominata anche da un desiderio di vendetta. Non sarà così, invece, nel vostro lavoro, dove il vagabondare delle donne coinvolte muoverà a tutt’altro… “Esattamente. Il nostro teatro cerca e sperimenta l’incontro, il dialogo, l’ascolto e sarà così anche stavolta. Il personaggio di Azucena, donna migrante ed errabonda, è per noi una suggestione. Come ogni anno, da quando collaboriamo con Verdi Off, scegliamo un’eroina verdiana che possa ricondurci a riflettere sulla nostra contemporaneità. Azucena è vicina a noi perché è una donna che ha sofferto, che lotta per trovare il proprio posto nel mondo, e che, come accade ancora oggi, è vittima di pregiudizi e luoghi comuni”

È dal 2003 che Festina Lente Teatro e Vagamonde esplorano attraverso la pratica teatrale le infinite possibilità di dialogo fra persone diverse per estrazione, età anagrafica, cultura. In questi 17 anni di attività cosa è cambiato secondo voi nella relazione con l’Altro? “Purtroppo, in tempi recenti, con le nuove leggi sulla sicurezza qualcosa è cambiato in peggio, molti dei progressi fatti sono stati cancellati da dettami che aumentano la paura e fanno leva sugli stereotipi. Non possiamo fingere che non sia così: la politica ha fatto del terrorismo sull’opinione pubblica. C’è da dire che la società civile ha comunque progredito, è andata avanti, ma la politica ha inasprito il clima, generando tensione e complicando di molto il processo di integrazione. Anche i mezzi di comunicazione sbagliano nel descrivere i migranti soltanto come vittime in fuga da torture e guerra. Sembra quasi che queste persone non abbiano diritto di esistere e di essere accolti se non hanno subito una qualche terribile violenza. Perché ci riesce così difficile provare a pensare che alcuni di loro desiderano semplicemente migliorare la qualità della propria vita e che talvolta c’è solo un ideale di bellezza e uno spirito di scoperta a guidarli?”

E oggi, in questo momento storico che ci trova spaesati e traumatizzati, come ne uscirà l’idea di relazione? “Non cambieremo molto, io temo, però il distanziamento imposto ci sta aiutando a comprendere l’estremo bisogno che abbiamo di comunità, di vicinanza, di riconoscerci l’un l’altro. Ecco, forse è andato definitivamente in crisi il tempo dell’individualismo sfrenato e sempre sbandierato. Ci siamo tutti riscoperti fragili, non ci sentiamo più onnipotenti. Ma un dubbio resta: saremo pronti ad aprirci davvero all’Altro quando l’emergenza sarà finita?”   

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