L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

MASSIMO POPOLIZIO: "Ritornare, anche nelle parole dell'Eneide"

"Vuole un titolo per l’articolo? Popolizio, l’attore antiretorico. Ci tengo a demitizzare questo mondo: noi teatranti siamo lavoratori, professionisti, persone che vivono del loro mestiere. Anche la parola artista è oggi troppo abusata. Preferisco definirmi un artigiano”. Difficile non definire “artista” Massimo Popolizio, il discepolo prediletto di Luca Ronconi, dalla carriera teatrale e cinematografica invidiabile, fitta di riconoscimenti e successi di pubblico e critica. Straordinario interprete di prosa, cinema e serie tv, ma da alcuni anni anche eccelso regista teatrale (“mi sono dedicato alla regia solo dopo la morte di Ronconi, prima per rispetto o forse timore non avrei potuto. Avevo eletto il Maestro a giudice del mio lavoro” confessa). L’esperienza attorale matura, attenta, potente di Popolizio sarà protagonista sabato 19 settembre, alle 21, all’Arena Shakespeare di Teatro Due con un testo portentoso tratto da un capolavoro assoluto della letteratura, ovvero “La caduta di Troia” dal Libro II dell’Eneide. La forza tragica dell’epos latino rivivrà nell’interpretazione di Popolizio e nelle originali composizioni musicali di Stefano Saletti e Barbara Eramo, che tra timbri, sonorità e scale di derivazione mediorientale, esalteranno il valore delle parole.

Di certo per lei non è una novità cimentarsi nella lettura di opere classiche, in particolare dell’Eneide… “È un testo che ho letto più volte, in pubblico ma anche per il puro piacere di immergermi ogni volta nella bellezza e nella densità di quella scrittura. In particolare in questo Libro II dove si narra dell’inganno del cavallo di legno, della guerra di Troia e della fuga per mare di Enea è impossibile non ritrovare riferimenti all’attualità, ai viaggi di milioni di persone in cerca di salvezza. Nella narrazione cercherò di dare immagine a quelle parole sublimi. Sarà bello poterlo fare in uno spazio all’aperto come l’Arena Shakespeare, un luogo pronto ad accogliere in sicurezza nel cuore della città”

Ma cosa significa per lei oggi “fare cultura a teatro”? “È una frase che si usa spesso, ma troppo ambigua, secondo me. Ecco perché preferisco evitarla e non parlare di me stesso ergendomi a “colui che fa cultura”. Semplicemente io svolgo una professione, e da anni mi ci dedico perché possa essere fatta al meglio, con responsabilità e cura. Quello dell’attore è un lavoro che richiede tanta attenzione verso l’altro ma è appunto un lavoro. Sinceramente di attori che “fanno cultura” nel senso più alto del termine ne conosco pochi. Troppo spesso utilizziamo con leggerezza parole preziose come “cultura”. La mia non vuole essere una critica sterile; dico solo che a volte le istituzioni, i teatri, gli assessori si concentrano poco sulle capacità professionali di coloro che coinvolgono o ingaggiano. La cultura passa invece anche da questa presa di coscienza concreta e mirata. Ecco perché non ho la presunzione di dire che sabato all’Arena Shakespeare “farò cultura”. Preferisco pensare che chi verrà ad ascoltarmi ripasserà insieme a me l’Eneide, un testo imprescindibile della nostra civiltà, e assieme immagineremo un mondo”

Fondamentale nel suo lavoro è il tempo che dedica all’insegnamento. Cosa le capita più spesso di consigliare ai giovani che vogliono intraprendere la carriera dell’attore? “Di smetterla di pensare che per fare l’attore occorra dimostrare la propria emotività. Ciò che ti emoziona non interessa a nessuno. Io, in quanto spettatore, sono interessato a ciò che un attore prova in relazione ad un progetto, ad un fine, a un pensiero. Sensibilità deve far paio con intelligenza e volontà di osservare il mondo, la gente. Guardare oltre il proprio Io. A volte serve anche un po’ di sana cattiveria, che non significa essere irrispettosi degli altri, ma aprire gli occhi su ciò che non va e lottare. Non siate buoni con tutti per paura di non essere accettati. E poi serve la dote più speciale: capacità di ascolto e di comunicazione, senza essere offuscati dal vissuto personale”

In una recente intervista ha dichiarato che “gli attori hanno successo solo se vivono il palcoscenico come una comunità”. Alla luce delle mobilitazioni di categoria dell’ultimo periodo, dettate dalle restrizioni anti Covid, questo principio vale ancora di più? “Sono due cose diverse. Essere una comunità presuppone un sapersi riconoscere per certe caratteristiche e peculiarità. Se mi riferisco alle associazioni di categoria questo è fondamentale per ottenere diritti e una tutela giuridica. Io stesso mi sono iscritto ad una di queste, U.N.I.T.A., da poco costituitasi. Sul piano pratico, invece, quando si sta in scena, è molto difficile fare comunità. Eppure credo che non si possa fare teatro da soli; il teatro è un mestiere d’ensemble che porta a confrontarsi continuamente con l’Altro”

Lei è un interprete di prim’ordine a teatro, ma celebre al grande pubblico anche per i suoi ruoli cinematografici e televisivi. Cosa sente di rispondere a chi sostiene che il sistema teatrale italiano sia un po’ malato di “divismo”? “Potrei dire questo: alla fine noi attori siamo un po’ schiacciati per un verso dallo star system, e per l’altro dal teatro di ricerca e avanguardia; non siamo però noi a decidere del tutto cosa proporre al pubblico. I direttori artistici hanno il peso maggiore e la responsabilità della scelta. Gli spettatori possono tuttavia, dal canto loro, decidere cosa andare a vedere, e sono liberi anche di incazzarsi e fischiare se qualcosa o qualcuno li delude. Gli attori possono solo cercare d’impegnarsi al massimo. Anche per questo motivo quando lavoro per formare il cast di uno spettacolo cerco solo attrici e attori bravissimi, indipendentemente dalla loro età o dalla loro esperienza. Bravura, competenza, intelligenza, invece, non possono mai mancare”

Lei ha definito la recitazione “come un fatto più fisico e corporale che non intellettuale”. Eppure i suoi spettacoli muovono a una moltitudine di riflessioni e pensieri dal forte carattere politico, etico e sociale… “È una definizione che si lega alla mia visione di teatro/artigianato. Chi recita deve avere una spiccata consapevolezza del proprio corpo, della voce, dell’età, della fatica, del respiro. Deve avere coscienza di essere e abitare in uno spazio preciso. Come si arriva a fare bene una parte? Come si raggiunge un buon livello di interpretazione? Partendo dalla nostra presenza fisica ma osservando gli altri, soprattutto coloro che hanno maggiore esperienza della scena. Recitare è un mestiere pratico che ritengo si possa svolgere al meglio soltanto nella piena consapevolezza della fisicità e dei suoi limiti naturali”

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