L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

ROBERTO LATINI:"RIABITUIAMOCI AD IMMAGINARE, ANCHE A TEATRO"

La preziosa, densa e poetica “macchina” Amleto di Roberto Latini torna ad illuminare il piccolo scrigno del Teatro del Tempo, venerdì 24 e sabato 25 gennaio alle 21. “Amleto + die Fortinbrasmaschine” è il titolo che verrà ripresentato quest’anno nella storica sala teatrale di Borgo Cocconi da uno degli interpreti più potenti e carismatici del teatro contemporaneo e che aprendo a una originale e profonda riflessione metateatrale, culturale e politica, ben si inserisce fra gli appuntamenti imperdibili del cartellone di Parma 2020. Secondo una personale e attenta “riappropriazione dei classici”, Latini trae per questo lavoro una diretta ispirazione dal testo “Die Hamletmaschine” di Heiner Müller, arrivando però a richiamare con sensibilità e intelligenza la nobilissima matrice tragica shakespeariana. Un’operazione non semplice di riscrittura scenica che ha incontrato, dal debutto nel 2016, il plauso di critica e pubblico e che oggi regala anche una felice occasione di dialogo con un artista completo, a cui poter rivolgere alcune domande sul “senso del teatro” nel nostro tempo.           

Partiamo dallo spettacolo in scena nel weekend qui a Parma. Cosa lega, secondo la sua visione artistica, i personaggi di Amleto e Fortebraccio presenti nel titolo? “Sono figure a specchio, complementari, seppur lontane. È come se Fortebraccio fosse sempre presente fin dall’inizio della tragedia, una sensazione di partecipazione che attraversa tutto il testo. È Amleto ma come altro da sé, come controparte ideale. Ecco perché quando Fortebraccio arriva, Amleto muore: egli è la figura metateatrale di Amleto e come tale non può coesistere all’altro. In un dichiarato gioco di teatro nel teatro, di riscrittura di una riscrittura, io e Barbara Weigel, coautrice della drammaturgia, abbiamo cercato di muovere la composizione testuale per generare un terzo movimento, guardando a Shakespeare, a Müller ma evocando anche altro”

Come si costruisce l’architettura atta ad accogliere la macchina Amleto in scena al Teatro del Tempo? “C’è senz’altro una maggiore essenzialità, per via dello spazio di azione disponibile, ma c’è tutto quello che occorre per far sì che la “macchina” funzioni ed è quanto offerto dalla drammaturgia stessa. Già in Shakespeare c’è una battuta di Amleto, quando egli scrive ad Ofelia, in cui si parla di “machine”. Un termine che viene colto da Müller e che avvia a tutte le successive considerazioni sul corpo-macchina e sull’Amleto-attore”

La tensione poetica è condizione propria dei suoi lavori, sia questa vivente e dunque incarnata nella figura dell’attore, sia essa contemplata nella relazione del corpo con lo spazio scenico. Come si esprime in questo lavoro? “E’ una poesia che viaggia sulla scrittura, che la percorre, facendo una capriola, andando  avanti per tornare indietro. Viene mantenuta la struttura mülleriana della suddivisione in 5 capitoli, ma rispettando tutta la potenzialità dell’argomento, costruiamo per sfumare poi nell’opera di Shakespeare, torniamo volutamente dentro alla ricchezza poetica di quelle parole. A tutto questo si intrecciano i riferimenti anche ad altri testi, ma sono appunto frammenti, tasselli, raggi riflessi che arrivano per sensazione”

“Amleto + die Fortinbrasmaschine” è tra gli eventi teatrali del programma Parma 2020. In che modo questo Amleto s’inserisce nella sua riflessione intorno al senso del teatro e a quella che è la sua funzione? Un’indagine che ha portato recentemente ad un altro suo esito eccellente, lo spettacolo “Mangiafoco”, andato in scena al Piccolo Teatro di Milano… “Rispondo con le parole usate proprio da Heiner Müller, seppur riferendosi ad un altro spettacolo: “(…) una delle funzioni del dramma è l’evocazione dei morti. Non possiamo interrompere il dialogo con i morti, fino a che non ci avranno riconsegnato la parte di futuro che è stata seppellita con loro”. Amleto ci offre, inoltre, l’opportunità di ragionare su questo: non ci si deve fermare a ciò che sembra. Andare, dunque, oltre la battuta che tutti conosciamo dell’ “essere o non essere”. Il nodo urgente va ricercato nella dicotomia fra esistere e sembrare”

Richiamandomi all’insegnamento di uno dei suoi maestri,  il grande Leo De Berardinis, vorrei chiederle questo: come arriva un attore ad assimilare, introiettare, la tecnica fino a dimenticarla e a poter fare così quello che vuole in scena? “Pensando che non è davvero l’attore che va in scena, ma che quello che sale sul palco è un tentativo, un tentativo che si chiama Teatro. Così si stringe ogni volta il patto teatrale con lo spettatore e lo si rinnova. L’interprete deve imparare a percepirsi come l’occasione attraverso la quale quel tentativo di scambio e fiducia avviene”

De Berardinis sosteneva anche che il pubblico fosse il fondamento per far avvenire la trasformazione dell’attore, che è poi trasformazione di noi stessi. Come vede e sente lei oggi il pubblico teatrale? “Purtroppo credo che sia disabituato ad immaginare. È la disabitudine del nostro tempo storico che ci rende più inermi e passivi. Nel mio ultimo lavoro, “Mangiafoco”, sollevo apertamente questa questione e pongo alla fine una domanda al pubblico, un quesito fondamentale “Costruire immagini o costruire immaginazione?”. Ci siamo disabituati all’attivazione immaginifica, e a volte, purtroppo, alcuni spettacoli teatrali non aiutano ad allenare in senso opposto. Si limitano a regalare delle immagini, a lavorare sull’estetica di facciata. Ma il pubblico deve riabituarsi ad immaginare”   

Ma il teatro può essere considerato oggi “luogo di ritrovata salute e di ritrovata fiducia” come auspicava il suo maestro? “Lo diceva in un tempo in cui era tutto molto diverso, socialmente e politicamente. Oggi direi piuttosto che il teatro può essere il luogo. Di cosa? Attiviamo il nostro immaginario, come individui e come collettività, e ci renderemo conto di quello che è veramente per noi vitale e imprescindibile”  

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