L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

MASCIA MUSY "ANNA DEI MIRACOLI: STORIA VERA, DI RARA BELLEZZA E UMANITA'"

Anna dei Miracoli offre una doppia splendida occasione: quella di mettere in scena un testo di rara bellezza, tratto da una storia vera di incredibile forza e umanità, e quella di riuscire a sensibilizzare sul tema della diversità, dell’amore verso i più deboli”. Nelle parole di Mascia Musy, intensa e raffinata attrice tra le più amate e premiate del panorama teatrale, già musa del regista Nekrosius, si percepisce il grande entusiasmo e la forte motivazione per un progetto scenico che da subito l’ha vista coinvolta in prima persona, anche nella ricerca di chi come lei potesse abbracciarne l’idea e credervi con la stessa passione e determinazione. L’opera riporta, infatti, a teatro, nell’adattamento della regista Emanuela Giordano, la pièce di William Gibson ispirata alla vita di Helen Keller, sordocieca dalla nascita, che imparò a parlare, leggere e studiare grazie alla sua insegnante Anne Sullivan, e da cui fu tratto anche l’indimenticabile film con Anne Bancroft, vincitore di numerosi premi Oscar. È appunto nel ruolo non facile, al contempo energico, risoluto e umanissimo di Anna, “the miracle worker” (titolo originale dell’opera teatrale), che si esprimerà l’indiscusso carisma della Musy, sul palco di Teatro Due insieme a Fabrizio Coniglio, Anna Mallamaci e Laura Nardi, sabato 14 dicembre alle 20.30 e domenica 15 dicembre alle 16.    

Uno spettacolo prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano ma che si unisce virtuosamente anche al mondo della solidarietà. In che modo? “Quando mi sono avvicinata per la prima volta al testo ne sono rimasta folgorata: esso racconta l’amore universale e meraviglioso di chi si prende cura del più debole. Non parla dell’amore fra un uomo e una donna, né di quello fraterno, o del genitore per un figlio. Esprime, invece, al meglio la cura, l’attenzione, l’affetto di un adulto verso una ragazzina speciale, una creatura più debole, fragile perché considerata “diversa”, delicata perché sordocieca e incapace di comunicare con gli altri. Vedremo poi come tutto questo potrà migliorare, sia per lei sia per chi le sta vicino. Un testo così straordinario non poteva che dare l’opportunità di raccontare la realtà importante della Lega del Filo d’Oro, che da più di 50 anni si occupa di persone con disabilità fisiche gravi, dando supporto anche alle loro famiglie. Questa collaborazione ha portato un valore aggiunto al nostro lavoro artistico. Offrendo l’occasione di conoscere in modo più consapevole queste problematiche e permettendo così di avviare nel corso della tournèe una campagna di maggiore sensibilizzazione, attraverso incontri, approfondimenti, donazioni. Il coinvolgimento diretto della Lega del Filo d’Oro ci ha consentito, inoltre, di toccare da vicino situazioni estremamente difficili: noi artisti abbiamo trascorso del tempo insieme ad assistenti e volontari, vivendo esperienze, conoscendo persone instancabili che ci sono rimaste nel cuore e che ci hanno colpito per la straordinaria dedizione e umanità. Il sostegno che la Lega del Filo d’Oro si impegna a dare alle persone sordocieche e alle loro famiglie è incredibile. Ed è proprio questo che vogliamo affrontare in scena:  l’adattamento di Emanuela Giordano si concentra sulla dimensione familiare, nella fattispecie sulle relazioni fra Helen, i suoi genitori e Anna, ma portando alla luce anche altre dinamiche, vale a dire le difficoltà che ogni genitore può incontrare nel comunicare con un figlio problematico”  

Tante le donne coinvolte nella genesi e nella realizzazione scenica del lavoro, da Andrèe Ruth Shammah del Teatro Parenti, alla regista Giordano. Quanto conta qui la prospettiva femminile, passando dalle protagoniste reali della storia alla traduzione teatrale? “In realtà credo che sia una fortunata coincidenza. È vero che la storia narra dell’incontro fra due creature femminili e che nell’allestimento c’è una maggiore presenza di donne, dato che qui i personaggi vengono ridotti a quattro, Anna, Helen, e i genitori della ragazzina, ma credo sia soltanto il felice risultato dell’azione congiunta di quanti hanno creduto in questo progetto e lo hanno voluto abbracciare con me. La bellezza “miracolosa” di questo racconto avrebbe trovato la propria strada teatrale anche in mani maschili, ma in esso c’è una sensibilità particolare che forse risuona con più forza fra le corde emotive delle donne. È quella che si ritrova in Anna e nel suo impegno per aiutare Helen a uscire dal buio in cui la malattia l’ha costretta e riportarla in qualche modo a rinascere una seconda volta. Attraverso Anna, e dunque una donna, accade nuovamente il miracolo della vita poiché solo con lei Helen apprende il linguaggio dei segni e comincia a comunicare con il mondo esterno, determinando un passaggio fondamentale nel suo rapporto con gli altri”

Cosa si prova ad interpretare una storia vera che è esempio di autentica riscossa? “Si sente una grande responsabilità, ma anche una profonda emozione, quella che solo interpretando un personaggio realmente vissuto si può provare. In più qui c’è la gioia pura di poter raccontare una vicenda emblematica per tutti. Pensiamo soltanto al titolo originale dell’opera, “The miracle worker”: ci fa capire come la salvezza di Helen possa avvenire solo grazie alla determinazione di Anna, alla sua dedizione per il lavoro, oltre che alla sua straordinaria umanità. È la concretezza dell’amore, che si esprime anche in autorevolezza e regole, non solo in cura e attenzione, a fare uscire Helen dall’oscurità e dall’isolamento. Ecco cos’è qui il miracolo del lavoro: quello di Anna su Helen, ma anche quello di Helen su se stessa”

Amore per il debole, per il diverso a cui si lega quello del riscatto identitario e sociale attraverso l’educazione e la cultura. La didattica, la trasmissione del sapere, come suprema manifestazione di affetto e apertura verso l’altro, quindi? “Sì, “Anna dei Miracoli” è anche questo. L’educazione, non solo l’amore, offre ad Helen la possibilità di uscire dal suo buio. C’è nel testo una battuta esemplificativa di tale pensiero: quando conoscono Anna i genitori di Helen le chiedono “Che cosa insegnerà a nostra figlia?”  e lei risponde “Il linguaggio, che è per il cervello quello che è la luce per gli occhi”. Grazie alla sensibilità, alla tenacia e all’empatia della sua insegnante, Helen imparerà a conoscere e a comunicare”

Uno spettacolo che, se vogliamo, esalta anche il valore della comunicazione tout court, oltre la diversità, narrando l’importanza fondamentale del linguaggio dei segni. Spingendoci un po’ più in là, sembra quasi una metafora del gesto teatrale che sa comunicare oltre la parola. “Potrebbe aprire anche a questa lettura. Nel vedere lo spettacolo, nell’ascoltare una storia umanamente così ricca, avvincente e potente, possono nascere tante riflessioni che appartengono al terreno delle relazioni e del comunicare. Io stessa ho appreso molto nell’avvicinarmi a questo testo, non solo esplorando il suo significato, ma imparando anche il linguaggio dei segni. Un patrimonio, sul piano della comunicazione con gli altri, che porterò sempre con me”

Il Teatro come roccaforte per raccontare la fragilità umana, ma anche per ricordarci quindi il nostro essere perfettibile, le infinite risorse di coraggio, caparbietà e volontà di cui disponiamo… “Assolutamente sì. Il messaggio inclusivo che permea il testo fa comprendere che esiste sempre una possibilità di abbracciare l’altro e che questo abbraccio può essere una esperienza illuminante non solo per chi lo riceve, ma anche per chi lo dona. È una chiave di lettura che svela la contemporaneità di questa pièce: in scena rivediamo la storia di tanti, di chi non sa affrontare un disagio, di chi non riesce a mettersi in ascolto dell’altro, di chi è disperato e di chi, per fortuna, non si arrende. Una parabola familiare che, seppur indirettamente, appartiene a molti. La via giusta, ci dice la storia, è quella del “miracolo", ma non di un miracolo divino, bensì tutto umano. Quello che ognuno di noi, nel proprio piccolo, può almeno provare a compiere”

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