L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

DAVIDE ENIA: "L'ABISSO: UN MONOLOGO DI MILLE VOCI"

Una narrazione di sincerità e verità disarmanti. Il valore civile del racconto “L’abisso” di e con Davide Enia, uno dei più intensi autori e interpreti della sua generazione, sta in questo, nel sapere richiamare in vita, sulla scena, attraverso le parole, i gesti, le modulazioni della voce, accompagnate dalla musica di Giulio Barocchieri, i protagonisti reali di un’esperienza umana fortissima vissuta in prima persona dall’autore: gli sbarchi di migranti sulle coste di Lampedusa. Per anni Enia ha raccolto quegli “Appunti per un naufragio” che prima si sono tradotti in un libro importante, per la forza delle molte testimonianze ricucite insieme dal solido filo autobiografico del rapporto con il padre, ma che poi hanno quasi naturalmente reclamato una piena vivificazione attraverso il codice teatrale. Un lavoro, quello di Enia, che è atto di coscienza intimo ma che inevitabilmente muove, grazie alla eccezionale abilità del narratore di plasmare le parole, a una compartecipazione emotiva e riflessiva straordinaria. Sarà il Teatro di Ragazzola ad ospitarlo come secondo appuntamento della stagione ufficiale giovedì 31 ottobre, alle 21.15.

Partiamo dalla superficie, prima di immergerci nelle profondità di quel mare che richiama un tema urgente, doloroso, tragico. Quest’anno, oltre al grande successo decretato dagli spettatori, “L’abisso” ha conquistato due premi significativi: premio Hystrio per il pubblico e premio Le Maschere del Teatro da parte della critica. Come accoglie questi riconoscimenti in seno a un lavoro dalla portata artistica ma soprattutto umana così sofferta? “Ottenere questi plausi è sempre lusinghiero, ma quanto conquistato trova in me solo la punta di un iceberg. Il premio va a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto e nel dire questo mi riferisco a quei nomi e cognomi che innervano il testo. Sono le persone di cui racconto, una moltitudine di esseri umani, alcuni ancora vivi altri purtroppo morti affogati, che porto in scena con me. “L’abisso” viene spesso presentato come un monologo ma non lo è in senso tradizionale: si compone di tutte queste voci. E poi in scena siamo due interpreti:  io con il corpo e la narrazione, Giulio con le note della sua chitarra. È un lavoro che si espleta tramite la parola ma è la musica a decorarne il senso”

Oltre al mare, quel mare che è diventato cimitero dell’Europa, a quale abisso fa riferimento il titolo? “È quello che appartiene ad ogni singolo essere umano, il baratro che fa parte del privato di ognuno, ma che si deve imparare a nominare anche quando fa male. Solo così una lacerazione, anche la più profonda, può cicatrizzarsi. È necessario creare un proprio controaltare emotivo, cercare e trovare quel gorgo che è causa della nostra sofferenza e confrontarsi con esso, prima che ci risucchi. Io l’ho fatto anche attraverso questo lavoro”

La parola prima ascoltata, poi annotata in “Appunti per un naufragio”, infine raccontata in scena.È la sua personale “operazione di salvataggio” della verità della storia, altrimenti destinata ad affondare nell’oblio? “ Direi di sì, e sono contento di uscirne vivo ogni volta, tanta è l’immersione quasi traumatizzante a cui mi sottopongo. È un lavoro molto intenso sul piano espressivo, ed è una esperienza fortemente emotiva che rivivo replica dopo replica. Quello che salva sono le prove, la liturgia del movimento, e poi il riuscire ad aggrapparmi ai nomi, al ritmo, alla musica, ai miei pensieri più felici, tra cui ritrovo la figura di mio zio, altra presenza forte nel testo. È l’immanenza di tutte quelle persone che non ci sono più ma che ancora illuminano il presente, e che mi infondono forza”

Della sua permanenza a Lampedusa ricorda parole ed esperienze dirette o indirette che non ha voluto raccontare e, se sì, perché? “Sì, ci sono state e non ho voluto narrarle per diversi motivi, perché la persona non era pronta a parlare della sua storia, o perché non ero riuscito a metabolizzare io un racconto. Dietro a questo lavoro c’è una scelta consapevole, tesa a rispettare le parti coinvolte, e soprattutto il loro dolore. Ogni passaggio del testo è stato concordato con i sopravvissuti, i soccorritori o gli amici citati”

Come si inseriscono in questa narrazione la figura di suo padre e quella di suo zio? Quale significato assume un dolore vissuto e trasmesso da un punto di vista maschile? “Sono stato anni a interrogarmi sul perché ho avuto l’intuizione di portare mio padre con me a Lampedusa. Credo che molto dipenda da una considerazione iniziale: il punto di vista su cui si è formato il vecchio mondo è maschile, è lo sguardo del padre che osserva, mentre la donna insegna ad entrare in empatia. Credo di aver portato mio padre a Lampedusa, a contatto con quella realtà così difficile e dolorosa, per rimettere in discussione questo mio sguardo sulla realtà. E’ talmente nuovo quello che sta accadendo, che una intera parte di mondo si muova, si sposti a rischio della propria vita, che non si può pensare di non ricalibrare la prospettiva su tutto. Lo sguardo della politica è, invece, retrogrado ed è ciò che ha condotto a una misconoscenza della situazione attuale”

Dicevamo che questo è un lavoro permeato anche di musica, quella composta dal chitarrista Giulio Barocchieri, suo compagno di viaggio. Quanto contano le note, il ritmo sonoro, in questo lavoro? “Sono fondamentali. Giulio è l’altro interprete del lavoro. Pur essendo la mia una scrittura drammaturgica dal carattere musicale, ho necessità di confrontarmi sempre con lui sui temi e sulla scansione del tempo narrativo. C’è una fortissima regia dietro questo dialogo fra parola e musica…alla fine, ciò che ne risulta è una sinfonia fra cunto siciliano, racconto, gestualità del corpo e note”

Da un naufragio ci si può salvare, sia questo reale oppure simbolico come un naufragio del dialogo, delle relazioni, della responsabilità civile, del diritto comunitario, della coscienza collettiva. Ma allora, in quest’ultimo caso, che cosa può rappresentare un approdo ideale? “Se ti salvi da un naufragio, sia questo privato o collettivo, non puoi che raggiungere una terra, un luogo anche metaforico, che non avevi preventivato. A questo ti costringe il naufragio: a rinegoziare il tuo sguardo. Ti offre una visione nuova, un’apertura speciale e inaspettata, ti spinge all’ascolto. Oggigiorno, il mondo, il vecchio mondo, si nega la possibilità del naufragio e preferisce annegare nell’odio e nel terrore. A questo ci siamo riconsegnati, sacrificando sull’altare di un finto benessere, la vita di altre persone, dimenticando le nostre origini e votandoci a un bieco e vuoto consumismo. La grandezza di una civiltà degna di questo nome si vede dalla qualità e dal valore della risposta che essa sa riservare a un’emergenza. E la risposta data dall’Europa alla tragedia che accade nei nostri mari è tuttora miserabile”

Vorrei citare anche un altro testo saliente sul tema degli sbarchi  “La Frontiera” di Alessandro Leogrande, ed esattamente quel punto in cui l’autore richiama, a sua volta, alla memoria un passaggio de “La linea d’ombra” di Conrad. Anche per lei il viaggio a Lampedusa è stato “un dire addio al paese della gioventù”? “No, io sono un privilegiato: sono nato e cresciuto a Palermo negli anni ‘80, negli anni di una feroce guerra di mafia che ha poi portato agli attentati del 1992. A 8 anni ho visto in strada un morto ammazzato perché questo capitava: i mafiosi si sparavano dalle macchine in corsa, nelle vie. La mia linea d’ombra l’ho oltrepassata allora, insieme ad altri miracolati della mia generazione. È  per questo che oggi siamo così veloci a riconoscerla negli altri”      

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