La recensione

NE "L'ABISSO" DI DAVIDE ENIA IL NAUFRAGIO DEL NOSTRO TEMPO

DI e CON: Davide Enia

MUSICHE COMPOSTE ED ESEGUITE DA: Giulio Barocchieri

UNA COPRODUZIONE: Teatro di Roma, Teatro Biondo, Accademia Perduta Romagna Teatri

(Spettacolo tratto da libro di Davide Enia, Appunti per un naufragio, Sellerio Editore)


“Siamo abituati alla morte, qui in mare. In mare, la morte ci accompagna sempre” racconta il sommozzatore. Un sommozzatore “enorme”, che malgrado sia un gigante, non ha il potere di un dio arcaico, non può modificare il corso della storia attuale, troppo crudele, e interrompere una immane tragedia, soffiando venti favorevoli, ma ha il coraggio, questo sì davvero “enorme”, di vestire l’armatura da eroe; un uomo, dunque, un rescue swimmer, pronto ad intervenire ogni giorno per salvare vite di naufraghi nel Mediterraneo.

Apre sulla esperienza di questo moderno “salvatore”, la narrazione sincera, appassionata, dolente e senza sconti, di Davide Enia, dal titolo “L’abisso”, un lavoro teatrale di profondo valore civile, rappresentato al Teatro al Parco (per la rassegna di Teatro Contemporaneo del Teatro delle Briciole/Solares delle Arti) e tratto da quegli “Appunti per un naufragio” che lo stesso Enia raccolse negli anni trascorsi a Lampedusa quale testimone diretto degli sbarchi di migranti e spettatore impotente dei racconti di morte ad essi accompagnati.

Ci si addentra con lui in un intreccio di storie vere e terribilmente umane, cucite fra loro dal filo doloroso di una realtà spietata, un presente così difficile da fronteggiare e da risolvere da farci sentire ogni giorno più inermi. Ci accostiamo anche noi, prima calandoci sulla terra aspra, calda e desolata dell’isola, e poi immergendoci in quel mare che porta con sé affetti, strazi, violenze, morti. A guidarci è la voce di Enia, narratore stupefacente, che plasma le parole enunciandole, dà loro forma, colore e vita, trasmutando ogni volta la narrazione in un atto di coscienza più personale, sostanziale e intimo. L’elemento autobiografico, commosso e partecipe, permea naturalmente, senza accenti di prevaricazione, la testimonianza forte della cronaca più tragica, i fatti legati a uomini disperati, a giovani donne sfinite dalle violenze, a bambini perduti. E poi ai cadaveri, esseri umani snaturati dal sale, dall’acqua, dai pesci.

L’abisso del titolo è questo mare che tutto inghiotte e divora, ma evoca anche altro: il profondo, smisurato, vortice di domande e responsabilità a cui ognuno è chiamato. Su questa verità drammatica, espressa senza filtri, l’autore tesse una serrata trama di riflessioni, episodi, pensieri, sussurri, silenzi, piccoli gesti misurati, precisi ed incredibilmente eloquenti, e poi brevi ma potenti passaggi cantati, parti in dialetto, frammenti del tradizionale “cunto” siciliano. Un flusso inarrestabile di vita vera e parole, di passato e contemporaneità, che scorre su una scena essenziale composta da due sole sedute, con puntuali proiezioni di luce e tante ombre a cadere al centro e ai lati del proscenio; un alfabeto visivo ed emotivo che traduce vividamente l’urgenza di raccontare una catastrofe umanitaria, richiamandosi anche alle formule del rituale antico, scandito magnificamente dalle musiche eseguite dal chitarrista Giulio Barocchieri, altro interprete in scena.

La storia non è più, dunque, solo letteratura o autobiografia, ma epopea seppure reale, che avvince l’attenzione del pubblico, ne fa vibrare il pensiero, ne tocca le corde emotive. Il mare cessa così di “essere un’astrazione” non solo per il sommozzatore del racconto ma anche per lo spettatore; diventa luogo supremo di uguaglianza in cui ogni vita è sacra e va difesa, dove la matematica davvero non è un’opinione perché nella maggiore emergenza è proprio il calcolo veloce che aiuta a capire quante più vite salvare, ed è ben oltre lo spazio naturale del lavoro dei pescatori, se è la loro preghiera quotidiana di non incontrar morti a segnare la rotta.

La ferita sanguinante di una comunità intera si incrocia, lungo il dipanarsi del fitto racconto, al dolore privato di Enia che, come un Enea del nostro tempo (profetica assonanza nel nome), decide di raggiungere l’isola della salvezza insieme al padre, in un viaggio che acquisisce così anche un valore privato, affettivo, occasione speciale di riscoprire un rapporto indissolubile. E’ l’intuito, che scalcia come un cavallo nell’anima, a suggerire all’autore di coinvolgere il genitore nell’esperienza toccante e dolorosa degli sbarchi. Forse è proprio lo spaesamento del padre, il suo proverbiale mutismo che qui, di fronte alla tragedia, diventa più che mai necessario, così come i tremori e i piccoli movimenti seguenti, ad aiutare il figlio nel trovare un punto d’incontro e dialogo. Nel dolore comune, percepito anche per il trauma subito dall’amica Paola, artefice di un salvataggio rimosso dalla memoria, il corpo sente che sta cambiando qualcosa e padre e figlio vivono un identico “quartiarsi”: stesso respiro, stesso ritmo, stessa intima angoscia di chi ha l’intelligenza di riconoscere che in ogni uomo albergano da sempre due istinti, uno di autoconservazione e sopravvivenza e l’altro di aiuto verso il prossimo.

Ma l’uomo appartiene anche a una società che, come tale, non può esimersi dal fare i conti con la morte. Sono i cimiteri a rivelare il modo in cui una comunità si relaziona con essa e allora, se il campo santo dell’Europa è oggi diventato indiscutibilmente il Mediterraneo, quale triste consapevolezza ne scaturisce? Ecco aprirsi un nuovo abisso, quello che investe la coscienza collettiva, l’assenza di coesione, unione e volontà che solo alla tutela della Vita dovrebbe spingere.In questa prospettiva di pensiero, la figura di Vincenzo, il signore del cimitero, e dunque padrone del ciclo della morte a Lampedusa, appare come un sommo esempio di umanità e comprensione, capace di non arrendersi di fronte al puzzo dei cadaveri stipati su una barca alla deriva e di studiare da solo una strategia tanto banale quanto ingegnosa per portare i corpi a terra, dando loro degna sepoltura.

Non ci si può che smarrire in mezzo a tanto dolore, sembra dire Enia nel ricordare un video i cui protagonisti sono ancora una volta un padre e un figlio, naufraghi veri, nell’anima e nel corpo, spersi in mezzo al mare in burrasca. E si può affondare nella sofferenza anche quando si perde una persona cara (la morte dello zio). Ma sono le parole che narrano di migliaia di sbarchi e annegamenti che il pianto soltanto non riesce più a pulire.

Scrivere, ricordare, raccontare, condividere rappresenta l’unica via per sopravvivere e ridare dignità non solo alle parole, ma soprattutto alla Vita e al ricordo di chi non c’è più, recuperando, forse, anche la Memoria culturale e fondante di un mito lontano eppure straordinariamente comune, quello di Europa. Del resto siamo tutti figli di una traversata in barca, suggella lo stesso Enia, con generosa empatia e profonda onestà, nella battuta finale; poco prima di venire salutato da una standing ovation di autentica e confortante partecipazione.

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