L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

MONICA BARONE: "LA MIA IPHIGENIA, TRA TRAGEDIA E LIBERTA'"

“Il discorso non è nell’essere parlante” sosteneva il filosofo Lacan. Dunque, forse, il senso autentico della comunicazione non va tanto ricercato nella parola enunciata, o nel significante, quanto in quella musicalità che sta dietro il linguaggio verbale e che è spesso ingenerata naturalmente dalla stessa personalità di chi esprime il pensiero o l’emozione. Se il concetto di matrice filosofica può non apparirci sempre facilmente applicabile nella banalità delle relazioni quotidiane, è anche vero che ritrova la sua testimonianza più autentica e pregevole in un’opera artistica di grande intensità e potenza, coreografata sul movimento e il silenzio: “Iphigenia in Tauride. Io sono muta”, il nuovo allestimento di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri, ovvero la radice creativa di Lenz Fondazione. Il secondo capitolo del dittico dedicato al mito di Ifigenia, che ha debuttato in prima nazionale lunedì 8 aprile (le repliche sono previste fino a sabato 13), è un’opera danzata che risponde a un’accurata e profonda indagine sul corpo tragico, oltre la parola e oltre il gesto. Ad interpretare Ifigenia e, al tempo stesso, i simboli, i segni e i rituali riflessi dalla figura mitica, è Monica Barone, danzatrice “sensibile” dotata di una precisa e limpida grazia performativa, oltre che di grande forza empatica. La biografia dell’artista è diventata essa stessa materiale d’ispirazione per la traduzione scenica, insieme all’opera di Eschilo, al dramma di Goethe “Iphigenie auf Tauris”, a quello di Gluck “Iphigénie en Tauride” e all’azione teatrale di Beuys “Titus-Iphigenie”, innestandosi così sul corpus drammaturgico, in un rispecchiamento continuo fra la condizione fisica di Monica (la quale ha dovuto subire numerosi interventi chirurgici al volto e vive grazie a un ausilio per la respirazione che le consente anche di comunicare) e quella della sacerdotessa custode del santuario a Diana.

Monica, come stai vivendo queste repliche parmigiane e cosa stai recependo tu dal pubblico? “Mi sembra un pubblico molto interessato e attento, per nulla a disagio nel condividere con me l’esperienza artistica. Sì, perché anche questo lavoro, vive e si alimenta della stretta sinergia tra me, lo spazio scenografico e lo spettatore. Posso dire che sono felice di come è stata accolta la mia performance. Credo che il pubblico parmigiano abbia ben compreso il valore di un’azione danzata che vuole mutare l’”ordinario quotidiano” in “straordinario percettivo”

E della esperienza a Matera alla fine di marzo, dove siete stati invitati all’incontro con realtà artistiche internazionali, presentando in anteprima proprio questo lavoro, cosa puoi raccontarci, cosa ti ha lasciato? “E’ stato molto stimolante confrontarsi con forme artistiche e creative diverse, con testimonianze da occidente a oriente, tutte così impegnate a far entrare nel mondo del teatro e della danza quello che possiamo ancora chiamare un soggetto nuovo, disabile, che è molto contemporaneo. Solo negli ultimi 30 anni la disabilità ha cominciato ad essere realmente presente in scena, a tracciare un percorso, e a un livello artistico elevato. L’obiettivo primario è appunto quello del raggiungimento di una altissima resa estetica: si lavora per uscire dall’ambito prettamente sociale e sanitario, animati dal desiderio di trasmettere il più possibile il valore dell’opera artistica in sé. Occorre accostarsi alla disabilità come a un elemento in grado di portare energia nuova alla creazione. Rendendo evidente questa necessità, si invita in qualche modo a superare le definizioni, gli incasellamenti, le classificazioni. L’artista disabile deve poter esistere anche fuori dal mondo culturale che lo riconosce, non deve sentirsi una parentesi, relegata a una stretta cerchia intellettuale. Bisogna rompere la fissità dello sguardo, e cominciare davvero a concepire azioni performative come queste, che a prima vista possono essere percepite come riabilitative, per focalizzarsi invece sulla pura qualità estetica”

Cosa significa danzare per te? “Cambia di volta in volta. Non posso descrivere una sola sensazione perché questa non è mai la costante nel tempo. Vivo la danza diversamente a seconda della mia età, del momento che mi appartiene, delle vibrazioni che mi attraversano. Non sono mai la stessa interprete. Nella danza sono sempre in divenire, ma in fondo tutti lo siamo, ognuno nella esecuzione della propria attività e nell’espressione del suo essere”

Quanto c’è di Monica in questa Iphigenia o meglio nel disegno coreografico che la rappresenta? “Si è partiti proprio seguendo un metodo di lavoro che era quello messo in atto dalla grandissima Pina Bausch: lei era solita fare interviste ai propri danzatori, prima di realizzare una coreografia, e da quelle informazioni attingeva poi materiale su cui ragionare e creare. Abbiamo proceduto così anche noi: ho tirato fuori elementi autobiografici, in qualche modo simbolicamente coerenti con la figura di Iphigenia. Nel mio caso, ad esempio, si è scelto di prendere un elemento medico, la cannula che mi permette di respirare, per eseguire un rito di purificazione. C’è, infatti, un momento in cui lavo questo oggetto in scena e quello è un atto teatrale, trasformato autobiograficamente. La cannula è l’ausilio per la respirazione e il respiro è la prima forma di nutrimento. E’ da lì che passa l’essenza della vita ed è ciò che consente il linguaggio, l’emissione del verbo, dunque, la Parola, che sul piano mistico, è il fondamento della fede. E’ questo un passaggio topico del lavoro ed è stato scelto per il suo potente valore simbolico, non per richiamare a una idea di sofferenza. Traduce un gesto di purificazione che è gesto di liberazione, dove Iphigenia allontana da sé gli altri, le regole e le imposizioni precostituite, perché vuole autodeterminarsi. Dopo quel rituale, c’è un passaggio parlato che io espleto attraverso il respiro soltanto. Non enuncio parole dalla bocca, mi sarebbe impossibile, ma esprimo una preghiera sommessa; questa non si può intendere sul piano del senso, non se ne riconoscono le parole, non è comprensibile, poiché è, in realtà, rivelazione di una dimensione puramente introspettiva. Ecco perché il tutto avviene in totale silenzio, senza nemmeno il tappeto sonoro a sostenerlo”

La danza come lingua non verbale, ma non per questo meno precisa. Più legata alla dimensione spirituale o più espressione fisica del movimento, a parer tuo ? “Penso che la danza sia il linguaggio del profondo, del mistero insondabile, immagine della ragione ma non solo. Ecco perché credo che spiritualità e fisicità siano inscindibili nella danza. E’ l’incontro fra loro che crea la poesia e sta poi allo spettatore lasciarsi toccare e sorprendere da un aspetto o dall’altro”

In questo lavoro c’è il dolore tragico ma c’è anche un forte richiamo alla libertà. Che significato attribuisci a queste due parole, dolore e libertà? “Il dolore è sicuramente una condizione naturale, universale, poichè tocca tutti indistintamente. La libertà è, invece, qualcosa su cui occorre impegnarsi ed è per me molto affine all’autonomia che si raggiunge rispetto a una identificazione data. Spesso l’essere umano ha la tendenza ad identificarsi in una immagine esterna, in un modello che il più delle volte non corrisponde al suo vero Io. E’ quello che ci chiede la società. Allora, la libertà nasce dove c’è consapevolezza della propria unicità, di quella singolarità, vissuta non più come un difetto da correggere, ma come diversità che è motore di bellezza e creatività. Libertà vuol dire non desiderare di assomigliare all’idea omologata che la collettività a volte comanda. Certo questo atto di volontà nel raggiungimento della libertà è difficile da compiere. Il più delle volte si tende a nascondere la propria identità per riuscire a rispettare quel modello esteriore. La libertà passa dunque attraverso il dolore, perchè costringe a guardare dentro se stessi, per come si è veramente, presuppone lo sforzo immane di fare i conti con il nostro Essere. Oggi, ad esempio, io vivo la mia disabilità come una esperienza che mi aricchisce. La malattia, il disagio, non sono un limite ma uno stato. Rappresentano il momento in cui puoi scorgere delle energie e delle forze sorprendenti, che non si sentono quando si è troppo impegnati a identificarsi rispetto all’esterno. La malattia è come la radice di una pianta che rompe il cemento di una finta sicurezza e che ti mostra quello che sei realmente, oltre la fisicità, lontano dall’esteriorità”

Atto di ribellione e riscatto di Iphigenia rispetto all’ordine divino e politico. Sei consapevole che la tua danza possa in qualche modo essere considerata rivoluzionaria? “Sì e no. Sì, nel senso che la disabilità non sempre viene accettata correttamente nel mondo della danza, dato che quest’ultima tradizionalmente si fonda su canoni e forme classiche. Anche se oggi questo ambito si sta aprendo a percorrere tante strade espressive diverse, penso che il mio modo di stare in scena possa essere vissuto ancora come “rivoluzionario”. E’ vero, però, anche il contrario, perché non so cosa accadrà in futuro, a quali sviluppi siamo realmente orientati, verso quali direzioni artistiche muoverà consapevolmente il mondo. Certo è che Teatro e Danza sono cambiati tantissimo negli ultimi 20-30 anni. Posso però dire con assoluta convinzione che siamo tutti dei canali, conduttori di energia, e che ognuno di noi è straordinariamente unico, ma che proprio per questo non deve mai dimenticare di lavorare in relazione con gli altri. Non dobbiamo perdere questa consapevolezza, di far parte di un disegno complessivo, superiore a noi. Oltre noi e le nostre splendide unicità”  

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