L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

GIGI DALL'AGLIO: "LA FORZA DE "L'ISTRUTTORIA" E LA POESIA DI "VILLON"

Quanto la storia del teatro a Parma (ma possiamo includere senza riserve anche quella della moderna scena nazionale) debba a questo colto, sorridente e garbato signore di nome Gigi Dall’Aglio lo sa chiunque abbia, pur sporadicamente, frequentato una sala teatrale. Tra i fondatori della compagnia del “Collettivo”, poi diventato Teatro Due, Dall’Aglio conta nella sua lunga carriera più di 200 spettacoli tra prosa e lirica; alla prolifica attività da regista va affiancata un’altrettanto ricca esperienza attorale e uno speciale impegno profuso nel ruolo di formatore, docente, nonchè organizzatore di importanti rassegne e festival. Tra le tante produzioni realizzate sotto la sua egida registica, ce ne è una però a cui spetta un posto d’onore: sia perché trattasi di uno degli spettacoli più longevi, un cult teatrale assoluto il cui debutto risale al 1984 e da allora, ogni anno, viene rappresentato con gli stessi attori (il gruppo storico dell’Ensemble di Teatro Due); sia perché ha toccato un vero record di repliche (oltre 1000) con circa 150.000 presenze di spettatori; ma soprattutto perchè il tema che affronta, con particolare cura e rispetto, è quello estremamente delicato e tragico della Shoah. Ci riferiamo ovviamente a “L’Istruttoria” di Peter Weiss, un allestimento riconosciuto dai più come un autentico capolavoro, un rito collettivo teatrale di grande potenza emotiva e partecipativa, che ogni anno si rinnova come un patto di Memoria, per ricordare l’orrore dei campi di concentramento, e farsi così testimonianza artistica dal valore documentario. Lo spettacolo torna dunque anche per questa stagione sul palco del Due, dal 22 marzo fino al 7 aprile (per orari http://www.teatrodue.org/); ma questa non sarà la sola regia di Dall’Aglio che vedremo in quei giorni…

Partiamo da questo magnifico esempio di teatro civile che è “L’Istruttoria”. Quando debuttò presentiva che l’impatto sul pubblico sarebbe stato speciale e così duraturo? “Certamente no, ma, senza neanche sperarci troppo, me lo auguravo. Noi tutti sapevamo di avere scelto una scrittura scenica sul testo di Weiss molto particolare, anche lontana, in un certo senso, da quella suggerita dall’autore stesso o frequentata da altre precedenti produzioni. Sapevamo di aver creato qualcosa di unico ed eravamo coscienti che questo avrebbe potuto far breccia nel pubblico, una breccia utile, significativa, necessaria. Questo è uno spettacolo che deve essere rappresentato ancora e sempre, almeno fino a quando la realtà vera non avrà coraggiosamente affrontato, risolto ed esaurito le questioni fondanti che pone il testo da cui nasce il lavoro”

E oggi, da quella “prima” nel 1984, cosa è cambiato e cosa è rimasto artisticamente ed emotivamente? “Venga con me (ci rechiamo sulla scena de “L’Istruttoria” in fase di allestimento proprio in questi giorni). Lo vede… guardi la scenografia, guardi questa parete: ci sono sovrapposizioni di carta, ci sono piccole crepe, qualche rattoppo… è vecchia come l’idea dello spettacolo, è quella da sempre e noi continueremo ad usarla, aggiustandola, rappezzandola….Questo per dire che la stessa scena sa comunicare emozioni, con le sue piccole cicatrici, le sue rughe, i suoi segni. Come la scena, anche noi attori siamo invecchiati di 35 anni. Abbiamo vissuto questo spettacolo e lo portiamo dentro di noi, anche se siamo indubbiamente cambiati. “L’Istruttoria” è stata per noi negli anni una cartina tornasole di quanto accadeva realmente sul palcoscenico della politica italiana. Quando crei uno spettacolo che porta in sè una così forte implicazione sociale, storica e culturale, hai risposte sempre diverse dal pubblico, riesci a leggere, a capire il sentimento collettivo di un Paese. E’ una esperienza di vita, oltre che artistica. Abbiamo sentito su di noi le evoluzioni, e le involuzioni, avvenute in questi anni, le abbiamo percepite attraverso il pubblico, nella sua restituzione di fronte allo spettacolo. Ecco perché, malgrado il passare del tempo, la struttura non è mai invecchiata, è sempre viva e penetrante. Per mantenere acceso il ragionamento sotteso all’opera abbiamo inserito una introduzione tratta dalla “Divina Mimesis” di Pasolini; del resto lo stesso Weiss aveva pensato alla Divina Commedia. La ragione è presto detta: “L’Istruttoria” ci racconta un momento particolare della nostra Storia, dalla cui riflessione non ci si può esimere e su cui occorre ancora meditare per preservarci dal ritrovarci coinvolti in analoghe tragedie.

Per questo abbiamo in parte infranto alcune regole che Weiss aveva in qualche modo tracciato, ad esempio quella che le voci dei testimoni non potessero appartenere a personaggi, per mantenere intatto l’impianto razionale. Qui il pubblico entra e vede gli attori che si truccano, siamo palesemente dentro a una rappresentazione, e questo crea una condizione di straniamento. Attraverso una recitazione mista, tra momenti più partecipati e più riconoscibili nella nostra quotidianità e fasi “fuori personaggio”, l’attenzione dello spettatore resta viva, sorpresa e partecipe. Non possiamo ignorare quello che è accaduto, dobbiamo sempre sentire addosso una nuova responsabilità; in scena lottiamo per far sì che tutto questo non finisca solo nelle statistiche del male e nei libri di storia, rischiando di essere poi omologato”

Un esempio straordinario di teatro responsabile e impegnato. Non crede che oggi più che mai ci sia bisogno d’investire proprio su questa formula teatrale civile? “Credo che ciò su cui insistere sia quello che accade quando la gente viene invitata a riflettere, o a provare un’emozione diretta, prima ancora di andarsi a sedere per “consumare” lo spettacolo. L’elemento rituale, proprio del teatro nella sua origine, è ciò su cui bisogna sempre lavorare e impegnarsi. La ritualità è ciò che apre alla partecipazione e all’emozione più autentica. Io ho avuto la fortuna di trattare un esempio di letteratura teatrale, appunto questa di Weiss, che si sposava in maniera perfetta con questo profondo senso di una ritualità. Ma se abbiamo costruito un teatro come il nostro è perché vogliamo ispirarci a questa idea teatrale di “rito” anche quando mettiamo in scena uno spettacolo giocato sul divertimento. Penso dunque che sia importante investire sul Teatro vero, vale a dire quello dove si entra in comunione con il pubblico e se ne può sentire e condividere il respiro”

Intanto, a me ha convinto a tornare per rivederlo un’altra volta, a distanza di tempo. C’è, però, in corso anche una sua nuova regia che debutterà al Due il 3 aprile, ovvero lo spettacolo “Villon” di Roberto Mussapi, con protagonista il bravissimo Raffaele Esposito. Anche qui ha deciso di portare in scena un tema oggi coraggioso, quello della poesia. Perché? “In realtà, per chi non conosce già Villon, poeta francese del XV secolo, il tema può proporre varie interpretazioni. Villon è poco conosciuto dai giovani, ma è stato un emblema della mia generazione, penso ad esempio ai cantautori francesi e italiani che si sono ispirati ai suoi versi. Oggi potrebbe apparire come un giovane pieno di entusiasmi e di disagio, come un giovane di prima del Terzo Millennio. E’ solo nel momento in cui viene chiarito il suo disagio, nascosto in questa euforia di libertà e rivolta, che si rivela il senso profondo e nascosto della sua poesia. Il personaggio riconosce che nel rumore ha sempre cercato qualcosa che lo allontani dalla paura, che gli dia la forza per concentrarsi nella scrittura. Tutto questo viene vissuto dall’attore sulla scena con molta forza, con tagli veloci. A Raffaele ho lasciato molta libertà nel cercare la propria dimensione interpretativa, nel farsi veicolo del vigore delle immagini e delle situazioni inventate e descritte da Mussapi e dalla tessitura che alimenta la sostanza sotterranea della sua poesia”

Ma il suo Villon come sarà? Fedele al dramma teatrale originale? “Lo è, ma quella che si vedrà non sarà una lettura di poesia drammatica, quanto piuttosto un dramma poetico vero e proprio. In scena si riflettono idealmente le immagini trasmesse dal testo, è un’opera dove la parola viene amplificata dalla fisicità dall’atto performativo.”

Una riflessione sul Teatro in cui si ritrova e si riconosce. “Tra le tante ne scelgo una di Genet: non ricordo esattamente le parole ma benissimo il senso. Una volta invitato a un convegno di architetti, il drammaturgo francese suggerì di costruire i teatri in fondo ai percorsi cimiteriali. L’idea da subito può sembrare macabra, ma nasconde una grande verità: se prima si passa tra i morti, quello che dopo si vede in scena viene percepito in modo totalmente diverso, appare come una espressione massima di vita, autentica e sincera, anche più ricca di significati. In fondo, cos’è il teatro se non un modo straordinario ed efficace per riflettere sulla morte? Solo il rito del teatro può aiutarci ad esorcizzare la paura della fine e a sostenerci per meglio affrontare tutto il corso dell’esistenza”

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