La recensione

WHEN THE RAIN STOPS FALLING E IL TEMPO DELLA MEMORIA

Di Andrew Bovell

TRADUZIONE: Margherita Mauro

CON: Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano

REGIA: Lisa Ferlazzo Natoli

PROGETTO: Lacasadargilla e Alessandro Ferroni

PRODUZIONE: Emilia Romagna Teatro – Teatro di Roma; in coproduzione con Fondazione Teatro Due; con il sostegno di Australian Embassy-Rome e Quantas

 

E’ la pioggia incessante a segnare simbolicamente, nel rumore scrosciante e nei diretti riferimenti in dialogo, quell’inesorabilità del tempo, lo scorrere della vita oltre tutto e tutti, che è il fondamento tematico su cui si erge l’architettura drammaturgica di “When the rain stops falling”, interessante lavoro dell’autore australiano Andrew Bovell, presentato a Teatro Due (la Fondazione ne è coproduttrice), egregiamente diretto da Lisa Ferlazzo Natoli e interpretato da un’affiatata e convincente compagine di bravi attori.

Sotto l’inclemenza delle precipitazioni meteorologiche- quella stessa inflitta dalle inclinazioni naturali, qui causa di errori e tragici accadimenti che verranno vissuti e lentamente svelati- chinano la testa tutti i personaggi di questa oscura e drammatica saga familiare, sfilando e accordandosi in un’ipnotica coreografia di entrate ed uscite, per attraversare così, nel loro andare e venire, tra cappelli perduti, ombrelli fradici e impermeabili smessi, gli spazi ma, soprattutto, gli anni compresi fra quattro generazioni. Avanti e indietro, secondo le indicazioni registiche pronunciate dalla voce fuori campo, rispettando le didascalie di luogo e tempo proiettate sullo sfondo e, in ugual misura, lo schema genealogico della famiglia che incombe come immagine, prima di sintetizzarsi nella sequenza di capitoli, volti a titolare un ricordo, un periodo, un momento saliente di vita.

Dal 1959 fino a toccare il 2039, tra passato, presente e futuro, il meccanismo narrativo vive e seduce- seppur nella prima parte risenta un poco della lentezza e della ripetitività di azioni e frasi, che poi nel dipanarsi della storia conferiranno invece un valore aggiunto alla solida costruzione - per la compresenza in scena delle diverse età dei personaggi: madri, padri, figli, che come in una sorta di sogno congiunto, di memoria familiare respirata, ereditata e confessata infine nel subconscio, tessono insieme la trama emotiva della loro vicenda privata. Gli incontri, i gradi di relazione, le incomprensioni, le abitudini, ma anche le colpe.

Ci si interroga sul trascorrere di un tempo che solo apparentemente è normale quotidianità; attraverso le corrispondenze fra le parole che scivolando da un personaggio all’altro vengono davvero tramandate (la frase della madre Elisabeth, ad esempio, “Che tempo orribile! Ma c’è gente che annega in Bangladesh”) e le consuetudini già fissate come tradizioni (la zuppa di pesce è il piatto a cui ognuno può attingere per sfamarsi e ritrovarsi), inconsapevolmente si formano tracce, indizi, segni sempre più chiari e indelebili di verità taciute, omissioni, segreti pesanti come fardelli. Così la visita del giovane Andrew, ultimo della discendenza York/Law, in cerca delle proprie radici, viene vissuta dal padre Gabriel come un momento difficile ma anche decisivo, dirimente per l’opportunità che offre al racconto. Forse è questo il vero miracolo, per lui che non crede in Dio e nei miracoli; forse l’eccezionalità di questo incontro, un dono in cui lasciar risuonare libera l’eco lontana del proprio passato, è pari a quella di un pesce che cade dal cielo. O forse è tutta una visione di ciò che l'animo presagisce, la concatenazione rarefatta di momenti che affondano in una lontana memoria e nella nostalgia.

In quel susseguirsi di stanze, le stazioni della Passione laica (come laico è il qui citato pensiero illuminista di Diderot) condotta in astrazione eppure umanissima, sincera, commovente, di una famiglia che arriva a conoscere e intimamente ad ammettere “ciò che nemmeno si ha il coraggio di cominciare”, riconosciamo la nostra condanna: l’impotenza di fronte al passare del tempo e al suo rivoltarsi contro. “Il tempo andrà avanti, come non fossimo mai esistiti”, noi, con i nostri legami profondi, i ricordi individuali, le piccole e grandi tragedie inconfessabili, e tutti gli affetti riuniti attorno a un tavolo, proprio come quello che sovrasta la scena e si fa perno delle tante combinazioni di movimento e dialogo.

La Storia collettiva, quella che nei decenni qui raccontati riconduce ai carri armati su Praga, al Sessantotto, alla politica della Thatcher, finanche a un futuro distopico, non è semplice interferenza nella dimensione personale ma tutto ciò che realmente resisterà di un Tempo condiviso, ben al di là degli atti e misfatti privati. Che si debba dunque soltanto “lasciare che i morti si prendano cura dei morti” e i vivi dei vivi?

La drammaturgia, nel suo incastro narrativo moderno, claustrofobico, teso, stratificato e al contempo sintomatico, icastico ed eloquente, parrebbe suggerire un’altra direzione: l’impossibilità di dimenticare la propria origine, malgrado noi, perché nel nostro passato presentiamo già parte del futuro, ristabiliamo involontariamente collegamenti col presente, in un continuum di reperti e segnali immanenti la nostra stessa esperienza e storia familiare. E questo accade quasi magicamente, sia essa un’eredità affettiva, un’influenza sotterranea, o una hybris antica che ricade sulle nuove generazioni.

E’ un tempo che ritorna e che può ritorcersi contro, come il dio romano Saturno che divoro’ il proprio figlio (mito a cui si fa qui più volte riferimento e che incarna perfettamente la colpa stessa del personaggio padre Gabriel Law), come la pioggia battente che sa penetrare le crepe, entrare nelle fessure, aprire squarci e persino inondare e sommergere, diluvio universale che giudica e spazza via i peccati, il dolore, i non-detti. Ma ecco che nel finale lo spettacolo ci richiama a un senso altro, alla verità, lieve oppure terribile, che resta e permane oltre il tempo fisico e quello meteorologico, quando la vita s’interrompe e così la pioggia, come è giusto che sia, cessa di cadere.

Lunghi applausi alla fine, tributati a un lavoro ammaliante, generoso, maturo, dove l'estrema cura, l'eleganza, l'equilibrio e la raffinatezza in tutte le sue parti (drammaturgica, registica, tecnica e attorale) bene si colgono e convincono.

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