La recensione

DELLA VERITA' E DEL SOGNO NE "LA BISBETICA DOMATA"

di William Shakespeare

ADATTAMENTO E TRADUZIONE: Angela Demattè

REGIA: Andrea Chiodi

CON (in ordine alfabetico): Angelo Di Genio, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Igor Horvat, Christian La Rosa, Walter Rizzuto, Rocco Schira e Massimiliano Zampetti

PRODUZIONE: LuganoInScena (in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura e Teatro Carcano, Centro d’Arte Contemporanea di Milano)

 

Il corpus shakespeariano è una fonte inesauribile di ispirazioni artistiche, creazioni e interrogativi. La genialità del Bardo, certo, capace di toccare nelle proprie opere ogni aspetto dell’esistenza umana, e senza mai giudicare, bensì offrendo allo spettatore un’infinità di punti di vista. Ma a questo occorre aggiungere altro: la sapienza di chi ancora oggi, approssimandosi alla preziosità di quei capolavori, non ne tradisce la bellezza dell’essenza linguistica, stilistica e formale. Così ha fatto il bravo regista Andrea Chiodi che in questo allestimento drammaturgico de “La bisbetica domata”, commedia classica tradotta e adattata dalla penna raffinata di Angela Demattè, ha rinverdito con tonalità fresche, moderne e vivaci la ben nota vicenda di Caterina l’indomabile (poi sottomessa) e Petruccio il marito conquistatore (infine padrone e sovrano), rappresentata, in un autentico tripudio di applausi, sul palco del Teatro Due.

Una messinscena incisiva e trascinante, intrisa di brillante ironia, scandita da un ritmo ineccepibile, in una ricercata modulazione tra dialoghi e azione, dove gli intrecci costruiti dai protagonisti e dai personaggi comprimari mantengono accesa e viva la tensione narrativa e straordinariamente vigile l’attenzione dello spettatore. Fluisce e disseta come l’acqua limpida di un ruscello di campagna, questo lavoro, ed è proprio su un quadro rupestre, raffigurante il momento di ristoro di alcuni nobili a una battuta di caccia, che apre il sipario. Un'immagine che pare attinta al più puro classicismo, con figure reali in abiti seicenteschi stanziate su un velatino che riproduce uno scorcio boschivo, e il latrare di cani in sottofondo. Come un dipinto antico, riprodotto al centro della scena, l’affresco di quella stessa umanità che il teatro, o meglio il gioco fine e quanto mai arguto del “teatro nel teatro”, saprà di lì a poco smascherare e restituire in forma agita, oltre che parlata.

Ed è l’ubriacone Cristopher Sly, qui ribattezzato Smalizia, addormentatosi per il troppo bere e riverso su una roccia, a catturare l’attenzione dei ricchi signori (così come del pubblico) e ad innescare il piacere fittizio della burla: al suo risveglio gli verrà fatto credere di essere un ricco lord e verrà invitato ad assistere alla commedia della “bisbetica domata”. Sogno seducente o ridicola fantasia? “Farsa è testo, è drammaturgia, è una specie di storia”, cita una battuta del testo. Scompare, così, in dissolvenza, proprio come un sogno che svanisce dopo un lungo sonno, l’immagine del bosco e si viene accompagnati, insieme a Smalizia, al cospetto della rivoltosa Caterina e della ruota di personaggi che fungeranno da suo controaltare simbolico, sia nel comportamento (la muta e mite sorella Bianca), che nelle relazioni familiari e sociali (col padre e gli altri uomini) e, soprattutto, nel legame con Petruccio (in rapporto alle altre coppie che si formeranno).

La scena è vuota - verranno sospinti e abitati, al bisogno, solo dei trabatelli a movimentare lo spazio di un’azione fremente e indomita che si sviluppa anche verticalmente- lasciando piena libertà alla parola, ora suadente, ora coercitiva, ora commossa, ora astiosa, in un continuo saliscendi di emozioni, nel vorticoso ordito di conflitti e stati d’animo che traducono in forma verbale quello che è il match, o gioco “sentimental-teatrale”, tra Caterina e Petruccio. Chi sarà il vincitore o la vincitrice? La messinscena pare suggerire da subito questa domanda con i numeri e i nomi di una ipotetica squadra ricamati sulle giacche di ognuno dei giocatori in campo ( e Petruccio, l’attaccante per eccellenza, non può che portare il 10 !); ad eccezione della ribelle protagonista, così scontrosa e poco incline alle regole da sfoggiare addirittura un vezzoso nomignolo, Cate, e non più l’esteso e conforme Caterina. Per lei no, nessun numero (non ancora, ma al termine della lotta sarà costretta a farlo), ma una maglietta insolente con la scritta “girls support girls”, come a dire che nel gioco dell’amore Cate vorrebbe restare sugli spalti, a guardare, a tifare per le donne, dilettandosi nel roteare la sua lunga gonna nera, piroettando essa stessa in modo sensuale, svelando una oltraggiosa calzamaglia rosso fuoco, un po’ cercando complicità negli sguardi, un po’ negandosi agli stessi. Nessuna gabbia di lettere dorate cucite sulla schiena a definire colei che nel corso della storia lotterà per conservare la propria indipendenza in una società già ordinata e precostituita, e soprattutto, tenterà con tutta se stessa di difendere “la libertà di andare fino in fondo con le parole”.

La trasposizione del capolavoro shakespeariano conquista e avvince, anche grazie a una serie di soluzioni e scelte registiche adottate con coraggio e intelligenza: affidare allo stesso attore il ruolo di Sly e di Petruccio (un fenomenale Angelo Di Genio, talmente bravo, preciso e vigoroso da lasciare increduli), coinvolgere nella messinscena solo interpreti maschili, come nella migliore tradizione elisabettiana (un coro di caratteri perfettamente armonico, dove ognuno nel proprio ruolo e in consonanza con gli altri riesce davvero a dare il meglio), servirsi di intermezzi cantati dagli attori che sottolineano anche musicalmente il senso divertito di alcuni passaggi (risuonano così le note di “Caterina” e “Magic moments” di Perry Como, come “Love me tender” di Presley) e, ultimo ma non ultimo, chiamare un fuoriclasse come Tindaro Granata a vestire il ruolo non facile della bisbetica.

Nella trama intricata di scambi di ruolo, di piccole intese e complotti siglati per fini lucrosi e/o sentimentali, la Cate interpretata da Granata sa risplendere di una femminilità argentea, incantatrice, imprevedibile, fragile eppure temeraria, conservando al contempo la forza maschile manifesta nella sua fisicità, in certi affondi volutamente più irruenti, e segnando con efficacia il suo essere motore dell’azione tutta. L’ambiguità della parola detta si riflette nell’ambiguità dichiarata della finzione scenica, ed è anche grazie alla bravura e lucidità di Granata- consapevole della necessità di lavorare in sottrazione su quei registri “en travesti” che avrebbero potuto farlo scivolare nella parodia- che l’interpretazione acquisisce un valore altissimo di veridicità e significato.

Si sottomette alla fine, Caterina, attraverso il dolore e la privazione, per diventare la regina della casa, e la sua resa (ma uno sguardo finale rivolto al pubblico sembra sottendere ben altre intenzioni) si compie e si esaurisce nella piena consapevolezza del potere mistificatore e ingannatore della parola. “Chi ha il capogiro crede che sia il mondo a girare” e allora dove risiede la verità? Qual è la giusta supremazia? Il valore allegorico del racconto chiude ciclicamente nel ripristino del quadro bucolico iniziale, ma con Smalizia che, risvegliatosi dal torpore, andrà incontro ai rimproveri della moglie a casa (perché lui non è il Petruccio dello spettacolo!) e con tutti i personaggi girati di spalle, a ricucire solo con le parole, via via più lontane, sfumate nell’eco e nella musica, lo strappo farsesco sulla realtà. O forse lo squarcio di verità luminosa nell’irrealtà di un sogno, anche teatrale.

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