L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

GABRIELE DI LUCA: "IL POP DI CARROZZERIA ORFEO E COUS COUS KLAN"

"Carrozzeria Orfeo: un nome che nasce dalla contrapposizione di parole tra loro molto diverse. La concretezza di una carrozzeria e il simbolo dell’arte. La fatica del mestiere, il sacrificio e la manualità dell’artigiano, e allo stesso tempo la volontà di vivere un’esperienza onirica.” E’ quanto si legge, come presentazione, nel sito della compagnia teatrale che, fondata nel 2007 da Massimiliano Setti e Gabriele Di Luca, insieme a Luisa Supino, sta spopolando sui palcoscenici nazionali, raccogliendo continue serate sold-out e critiche entusiastiche (negli oltre dieci anni di attività, 8 spettacoli prodotti, recenti vincitori del Bando Cultura Sostenibile di Fondazione Cariplo con il progetto triennale “Tour de Force” e, tra l’altro, la prossima uscita del film tratto dall’acclamatissimo Thanks for Vaselina, sempre per la regia di Di Luca, e con Luca Zingaretti tra gli interpreti).

Un teatro contemporaneo divertente, il loro, ma di quell’ironia caustica che scioglie l’ipocrisia perbenista e tagliente come la più affilata delle lame. Protagonista degli spettacoli di Carrozzeria Orfeo è, infatti, un’umanità instabile, nevrotica, desolata, ai margini, per molti aspetti sofferta e pericolosa, ma malgrado tutto vicina a noi nella sua immediata e provocatoria riconoscibilità, capace di scuotere e far ridere attraverso la cinica simpatia dei caratteri e i dialoghi fulminanti, così come di commuovere con storie personali per lo più devastate dalla solitudine e dalla mancanza d’amore. Anche il lavoro che verrà presentato sabato 9 febbraio alle 21 al Teatro al Parco, “Cous Cous Klan”, si fonda su questa poetica di eccessi e contraddizioni, esasperatamente tragica e al contempo disperatamente ironica, dove le singole vicende una volta spinte all’assurdo, diventano incredibilmente affini al nostro quotidiano e ben oltre la semplice verosimiglianza. Padre drammaturgico e, insieme a Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi, regista (in altri lavori anche travolgente interprete) dello spettacolo è Gabriele Di Luca, a cui va il merito di riuscire intelligentemente a coniugare in scrittura l’estrema semplicità di linguaggio con la drammaticità dei temi toccati, e con la potenza comunicativa della più cruda verità di parola.

In molti, parlando dei vostri lavori, ne sottolineano l’impetuosa e corrosiva impronta “pop”. Che valore date a questa definizione? “Per noi ha un valore assolutamente positivo. Restituisce, nella sua essenzialità di termine, il senso della nostra visione teatrale. Vogliamo rivolgerci al pubblico in generale, senza differenze, dimostrare che si possono affrontare temi contemporanei molto delicati, emozionando e divertendo, con un modo di fare teatro che, pur nella sua vivacità e ironia, non dimentica di essere anche poetico. Da sempre noi facciamo una distinzione fra “popolare” e “commerciale”. L’operazione commerciale presuppone un compiacimento del pubblico di massa, una intenzione a priori di andare incontro al gusto dello spettatore. E non è questo il caso. Il nostro teatro è, invece, popolare perché può essere compreso da tutti, raggiunge davvero chiunque. E’ semplice ma non banalizzato, e sempre retto da un onesto pensiero intellettuale”

“Cous Cous Klan” da quale idea ispiratrice parte e cosa vuole in qualche modo infrangere e irridere attraverso la realtà distopica che rappresenta? “Si svolge in un futuro imminente, in una terra occupata da roulotte abbandonate dove una comunità di perdenti, interpretati da Angela Ciaburri, Alessandro Federico, Pier Luigi Pasino, Beatrice Schiros, e gli stessi Setti e Tedeschi, cerca di sopravvivere fronteggiando un problema molto serio: la mancanza di acqua. Questa è diventata un bene prezioso per pochi ricchi, che vivono barricati in quartieri protetti. E’ una commedia nera “distopico realistica”, perché in parte già descrive un mondo che esiste, una società in cui i ricchi si chiudono nei loro privilegi, confinando i poveri altrove. L’ispirazione è arrivata visitando realmente dei campi Rom, e aree di accoglienza per rifugiati. Lo spettacolo racconta anche di questa terribile e costante volontà dell’uomo di creare sempre nuovi confini tra le persone, in un “continuo generare e distruggere senza tempo”, come cita la battuta chiave di un personaggio in scena”

Caratteristica propria dei vostri lavori è il ritmo serratissimo dei dialoghi. Come riuscite a interagire con tanta abilità e naturalezza? “Dobbiamo considerare due aspetti, uno più poetico e l’altro, diciamo così, più formale. In scena, i personaggi devono in qualche modo restituire nel parlato la sensazione di una rincorsa: rincorri a perdifiato la vita, e quel ritmo traduce la nevrosi di un mancato obiettivo, di un’aspettativa che non viene mai soddisfatta. I dialoghi cercano di raccontare questo, un movimento nevrotico e inarrestabile. Dietro a tutto ciò, però, c’è tanto lavoro tecnico, una grande ricerca sui passaggi dell’interazione, sulla loro efficacia, sull’urgenza che ogni singolo personaggio ha d’intervenire. Perché tanto fervore negli scambi di battute? Perché per l’umanità descritta nei nostri lavori la parola è vita mentre il silenzio significa morte e oblio”

Personaggi estremi, borderline, attraverso i quali toccate ogni volta molti dei temi più scottanti del nostro tempo. Come riuscite a controllare l’intreccio di argomenti difficili e talvolta diversificati senza scivolare nell’approssimazione, nella superficialità di trattazione? “E’ vero, gli spettacoli sono sempre molto densi di temi e argomenti, questioni anche spinose, ma è un po’ quello che accade nella serialità contemporanea. Anche qui a teatro abbiamo creato una orizzontalità e una verticalità di sviluppo per ogni personaggio. E così, nella trama di storie raccontate, cerco come drammaturgo di rintracciare i nodi caldi del tempo in cui viviamo, li metto insieme, li amalgamo. Incastro i problemi personali dei protagonisti al loro grande riscatto collettivo”

Questo esasperato cinismo che portate in scena non è troppo vicino a quello che realmente ci circonda, che ascoltiamo e rivediamo purtroppo in tv o nei canali social ? Il Teatro non dovrebbe parlare della realtà, veicolandola attraverso un linguaggio altro, più sublimato? “Sono assolutamente d’accordo, tant’è che io credo che il linguaggio quotidiano qui usato sia a suo modo sublimato. Il cinismo crudele, senza fronzoli, del nostro Teatro agisce su due livelli e parte da un assunto preciso: la nostra società vive al contrario, ovvero si nasconde dietro alle belle parole per poi agire in tutt’altro senso. Quello che il nostro linguaggio riesce a fare è svelare questa ipocrisia, compie un’azione di smascheramento, rompe gli schemi comuni e i ragionamenti precostituiti. La nostra intenzione è di scardinare la normalità apparente, di rivelare la natura reale di alcuni comportamenti contemporanei, che sono forse la maggior parte. Ecco perché ci possiamo richiamare a un’idea di sublimazione linguistica anche nei nostri spettacoli”

Nei vostri lavori si respira grande libertà creativa e di espressione. E’ proprio così ? Fin dove sentite che il teatro possa veramente spingersi rispettando certe istanze artistiche e rispondendo, al tempo stesso, al consenso del pubblico? “E’ un discorso complicato. Credo che l’unica cosa che conti davvero sia la coscienza personale di chi sta lavorando a quel progetto e noi non veniamo mai meno a questa. Il nostro teatro è osceno, ma non volgare. Ed è appunto l’onestà che lo ispira a determinare la differenza. Non c’è un intento volgarmente provocatorio nel nostro teatro. Tutto è semplicemente il risultato di una particolare idea di scrittura del testo che è sempre indiscutibilmente onesta. Quando scrivo una drammaturgia cerco sempre di rimanere fedele a me stesso. Se c’è questa trasparenza, questa sincerità nell’approccio, il teatro può spingersi dove vuole, può anche eccedere la misura. Quando un lavoro è sorretto da un pensiero ponderato e da una visione chiara allora funziona”  

Voi riuscite a conquistare spettatori molto diversi, sia per estrazione culturale che generazionale, ma sono soprattutto i giovani a seguirvi. Cosa vorreste che arrivasse del vostro teatro a questa più larga fetta di pubblico? “Speriamo di ricordare a tutti che il teatro è per sua stessa natura popolare, e questo da sempre. Perché al cinema tutti possono accedervi mentre a teatro è diventato così difficile? Il teatro deve saper creare comunione, anche o forse soprattutto mettendo in scena quello che è l’immaginario collettivo presente. Cosa vorremmo che arrivasse ai giovani? Ci auguriamo che intendano l’esperienza teatrale come una vera esperienza di vita, dove non ci si annoia ma si riflette ugualmente. Il teatro deve assolvere ai suoi tre scopi originari: intrattenere, emozionare, avere un senso. Al di là del risultato, è a questi tre principi fondanti che noi da sempre vogliamo rispondere”

(per info e prenotazioni sullo spettacolo: 0521 992044)

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