L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

ARTURO CIRILLO: "LA VISIONARIETA' DI EUGENE O'NEILL"

L’esplorazione della drammaturgia statunitense contemporanea, avviata cinque anni fa dal regista e attore napoletano Arturo Cirillo, continua meritatamente a raccogliere consenso e plauso da parte di pubblico e critica. Dopo il successo di “Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams e “Chi ha paura di Virginia Woolf ?” di Edward Albee, la trilogia dedicata alla controversa produzione degli autori teatrali americani tra i più rappresentativi del ‘900 si è conclusa in quest’ultima stagione con “Lunga giornata verso la notte” del premio Pulitzer Eugene O’Neill, a cui la mano registica di Cirillo ha conferito quel particolare accento acuto, visionario e poetico che è ormai cifra stilistica riconoscibile del valente e sensibile artista partenopeo, nonché la sua qualità propria più stimata e apprezzata. Questo suo ultimo lavoro, prodotto da Tieffe Teatro Milano come i precedenti due titoli, approderà giovedì 20 dicembre alle 20.30 (con replica venerdì 21 alla stessa ora) sul palco del Teatro Due che già aveva ospitato in passato gli altri capitoli della trilogia.

Da dove arriva la decisione di affrontare questa lunga incursione nel teatro americano? “Non c’è stato un preciso momento, un elemento scatenante che ha portato a questo percorso. Si è fatto da sé, poco alla volta, dopo che fui invitato da Milvia Marigliano, compagna di lavoro e straordinaria interprete dello spettacolo, ad approfondire questi autori. Iniziammo con “Lo zoo di vetro”: il grande successo ottenuto andò oltre le mie previsioni, anche perché mi accostai a queste opere con un po’ di timore. Si trattava di una drammaturgia troppo naturalistica, lontana dalla mia idea di fare teatro che è più astratta, metaforica. La sperimentazione di questi autori americani non poteva che essere condotta verso la mia visione teatrale, verso una dimensione più immaginaria, togliendo il più possibile ogni riferimento sociologico. Dei tre autori in cui mi sono cimentato, proprio Tennesse Williams è quello che forse ho sentito più adatto alle mie corde, più facile da investigare perché più vicino al mio modo di intendere la messinscena, con accenni al mondo fantastico, all’astrazione”

Le dinamiche familiari, relazioni fallimentari, malate, dolorose, sono al centro della pièce che porterà al Due, ma per aprire a quali altre letture? “Sicuramente alla metateatralità. Tutta la storia raccontata ha a che fare con il Teatro. I personaggi fanno teatro: il capofamiglia era un attore promettente, che non è riuscito a fare carriera, il primogenito è un attore senza motivazioni, costretto a recitare dal padre, e così gli altri protagonisti, la madre e il figlio più giovane Edmund possono essere considerati come i membri di una compagnia teatrale. Ho molto insistito su questo aspetto anche sul piano scenografico, assegnando agli attori in scena delle vere e proprie postazioni che si riveleranno essere dei camerini teatrali. Ho un poco tradito il naturalismo della drammaturgia originale, ma credo che sia una responsabilità da prendere e un rischio da correre necessari, a volte”

L’iperrealismo di O’Neill è stato dunque superato solo dalla componente metateatrale o ha attuato altre strategie per conferire maggiore modernità al testo ? “Sicuramente ho compiuto anche dei tagli al testo, le parti attinenti all’America, e in questo caso specifico anche all’Irlanda. I protagonisti, i Tyrone, sono infatti emigrati irlandesi negli Stati Uniti. Ho eliminato tutti questi riferimenti geografici così precisi, portando invece i personaggi verso una condizione di apolidi, in qualche modo fuori da restrittive appartenenze spazio-temporali . Per fare questo mi sono dovuto liberare anche della forte connotazione autobiografica del testo. Si tratta, infatti, dell’ultima opera scritta da O’Neill ed è a tutti gli effetti la storia della sua giovinezza e della sua famiglia. Tant’è che l’età che lui assegna ai personaggi è esattamente quella dei suoi familiari nell’anno stesso in cui viene ambientato il dramma. Questa scrittura ha dunque un ulteriore realismo perché è una vicenda ispirata a una storia vera. Quello che a me interessava di più sondare era la storia personale di un uomo che, alla fine della propria carriera, deve fare i conti con il suo passato, mettendo in atto quasi un’operazione pirandelliana: è come se avesse sentito che quelle figure volevano tornare in vita, è un richiamare a sé i propri fantasmi. Ecco perché in scena è quasi costante la presenza di una nebbia che trasforma lo spazio in un luogo irreale, come colpito da un sortilegio”

Un lavoro di regia e anche attorale il suo. Come ha costruito l’impianto recitativo insieme agli altri interpreti? “Si è costruito naturalmente, formando quella che oggi è un po’ una piccola compagnia teatrale. Di tutto il lavoro fatto anche in questa direzione, molto e bene si scrive nel libro “Dall’altra parte dell’America- La trilogia americana di Arturo Cirillo” pubblicato in questi giorni da Cue Press e curato dal critico Andrea Porcheddu. E sì, la scelta degli interpreti è stata determinante anche nella riuscita del progetto. Del resto, io penso che nella selezione del cast si realizzi già tanto della scelta registica che prenderà corpo in scena. In questo la bravura degli attori chiamati ha molto aiutato. A parte la presenza mia e di Milvia Marigliano in un certo senso obbligata, in quanto fautori del lavoro, l’arrivo di Riccardo Buffonini con la sua infinita gamma espressiva e di Rosario Lisma, che pur provenendo da percorsi attorali molto diversi, ha contribuito tanto alla formazione del suo personaggio, mi ha molto aiutato a mantenere fede alla mia idea di regia. Ovvero, io non faccio con gli attori un particolare lavoro psicologico, semplicemente li invito a mettere in gioco qualcosa della loro esperienza, della loro interiorità, a raccontare qualcosa di sé, seppure in maniera obliqua, non dichiarata”.

Quanto conta il dialogo fra i personaggi in questo lavoro e quanto lo spazio dell’azione? “In tutta franchezza, la storia con la sua trama appare piuttosto inconsistente. Il plot, a un livello puramente rappresentativo, è chiaro e manifesto da subito, con i problemi che vengono quasi dall'inizio espressi apertamente. Quello che a mio avviso è assolutamente interessante è la solitudine che questi personaggi si portano addosso, come un abito. Il testo è colmo, denso di dialoghi, ma non c’è mai una vera comunicazione tra le parti. Si snoda tutto come se fossero più flussi di coscienza messi insieme, in cui quasi tutti sono un po’ colpevoli di qualcosa, anche se poi, io credo, che esista un capro espiatorio nella trama e che sia rappresentato dal giovane Edmund, la figura che incarna O’ Neill stesso. In lui, nella sua malattia, esplode il senso di colpa che pervade tutto e tutti. E’ in fondo un ritratto familiare molto verosimile.”

Il sogno americano infranto, a teatro come nella realtà. Solo buio e angoscia a chiosa di tutto o una flebile luce per immaginare altro, per andare oltre quell’orizzonte di falsi miti ? “Questo di O’Neill è sicuramente il più cupo dei tre testi da me affrontati, e per certi aspetti anche il più difficile perché non c’è in esso una redenzione, una catarsi. E’ un po’ il suo testamento, la visione di un uomo che sa che sta per morire. Il testo parla di una notte che probabilmente non vedrà mai alba e da cui traspare una nostalgia disperante. Del sogno americano poco o nulla resta”

Per info e prenotazioni: 0521 230242

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