L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

ILARIA FALINI:"Kate Finn": l'ortoressia ma per parlare di emozioni"

Impossibile non ricordarla (e non amarla) quale protagonista in “Gyula” di Fulvio Pepe e come interprete raffinata, convincente e precisa di più recenti produzioni e coproduzioni di Fondazione Teatro Due (“Il borghese gentiluomo”, “Ivanov” e “Girotondo Kabarett”). Ilaria Falini è una di quelle attrici che oltre a godere di un talento naturale, una grazia espressiva innata, e una formazione professionale solida, sa instaurare una immediata e spontanea empatia con il pubblico. Tecnica e studio, sì, ma anche tanta umanità e generosità nella sua arte. Peculiarità non comuni che Fondazione Teatro Due ha saputo riconoscere e valorizzare, al punto di produrre uno spettacolo in cui la brava Falini è non solo l’unica interprete in scena, ma anche ideatrice e coautrice: “Kate Finn- Il meno per il più” per la regia di Fulvio Pepe debutterà domani, mercoledì 17 ottobre alle 20.30, con repliche fino al 28 ottobre. Un monologo dai risvolti tragicomici in cui l’interprete potrà dare ampio spazio e voce alla sua poliedricità.

Dopo Gyula ti ritroviamo in un nuovo lavoro che porta la firma registica di Fulvio Pepe. E’ la conferma di un vero e proprio sodalizio artistico? “Con Fulvio ci conosciamo da tempo e ci lega una stima reciproca profonda. Abbiamo spesso lavorato insieme come attori, anche di recente. Con Gyula ho potuto apprezzarlo meglio come regista.Così, quando ho avuto l’idea particolare di questo spettacolo, in cui si racconta di persone in qualche modo legate tra loro da un disturbo alimentare grave, l’ortoressia, che colpisce la protagonista Sara, ho pensato subito di chiedere aiuto a Fulvio. Solo lui conosceva bene l’immaginario a cui avrei attinto io, sapeva già quali corde muovere sia nella scrittura drammaturgica, sia nella messinscena.E poi, dopo l’anteprima allestita in un piccolo teatro delle Marche più di un anno fa, è arrivato anche Teatro Due. La Fondazione è stata per me in questi anni un punto di riferimento imprescindibile. Il fatto che ora si sia deciso d’investire in termini produttivi su questo progetto, è un atto di grande fiducia che mi riempie di orgoglio e responsabilità”

Ma chi è Kate Finn e perché la sua storia è stata fonte d’ispirazione per questa pièce? “In realtà sono intervenuti diversi fattori che mi hanno condotta alla genesi di questo lavoro. In primis, il desiderio di misurarmi in un monologo: sentivo l’esigenza di essere sola sul palcoscenico, pur amando tantissimo i lavori ricchi di dialoghi e personaggi. In quel momento, ho ricevuto anche una sorta di commissione da un mio amico per uno spettacolo nuovo. Così via via maturava il pensiero di cimentarmi in uno spettacolo costruito da sola. L’idea della patologia alimentare è nata perché, ad un certo punto, ho avuto dei problemi di salute che mi hanno costretta a seguire una dieta priva di glutine. Stavo attentissima a tutti i cibi, controllavo ogni ingrediente. E un giorno mia sorella mi ha apostrofato proprio così: “Non starai mica diventando ortoressica?” Ho cominciato allora a fare indagini su questa psicopatologia: la cosa sconcertante è che chi ne soffre, vuole nutrirsi solo di cibo sano, perfettamente puro, ricercato in una forma quasi ideale. Paradossalmente si innesca un cortocircuito: si arriva a non mangiare più nulla e addirittura a morire. Nel documentarmi, mi sono imbattuta nella storia di Kate Finn, una signora americana che morì di ortoressia. Ho letto alcune pagine del suo diario, pubblicato postumo, in cui lei descrive la sua spasmodica ricerca del cibo incontaminato. Ho, in seguito, raccolto altre testimonianze di persone che soffrono di questo disturbo, ma l’intento non è mai stato quello di esplorare la malattia da un punto di vista scientifico. Quello che mi interessava, e che Fulvio ha saputo sostenere, era l’approccio alla malattia dal punto di vista emotivo, le diverse reazioni di chi vive accanto a una persona che può soffrire di una patologia simile. Ecco perché abbiamo immaginato una serie di personaggi che ruotano attorno alla figura di Sara e al suo disturbo: il loro punto di vista è quello che vogliamo portare in scena”

Come può il Teatro addentrarsi nel racconto di forme patologiche così gravi come l’ortoressia senza scivolare nella retorica, o peggio, in un atteggiamento pregiudizievole? “La drammaturgia ha avuto diverse stesure ma abbiamo sempre cercato di affrontare tutto avvalendoci dell’ironia, di mantenere un distacco, una giusta distanza: non parliamo di Kate Finn, non raccontiamo la sua storia, ma quella di persone che possono avere a che fare, anche indirettamente, con un problema simile al suo. Teatralmente, poi, era interessante il paradosso che si ingenera in chi ricercando la massima salute, trova a volte l’esatto opposto. E’ stato inoltre divertente pensare di ambientare questa storia in Umbria, una terra che rimanda a una idea di benessere e pace. Tanti punti di vista, tante visioni e opinioni, senza però mai voler prendere una posizione riguardo alla malattia, senza difendere, compatire o condannare. L’approccio emotivo, e solo quello, è quanto ci ha ispirati.”

Oltre alla protagonista Sara, dicevi che in scena costruirai altre voci di personaggi, quattro per l’esattezza. Cosa significa per un’attrice donna avere l’opportunità di dimostrare nello stesso spettacolo la propria versatilità? “E’ una grande occasione che ho avuto la fortuna di potermi costruire, nell’ideazione dello spettacolo, ma è anche una prova muscolare, di autentico allenamento, davvero impegnativa: complessivamente si tratta di cinque caratterizzazioni, con espressività e linguaggi differenti. In questo, la collaborazione con Fulvio è stata preziosa. Lui mi ha aiutata tantissimo a far emergere e definire al meglio queste maschere, che saranno collegate tra loro da una voce narrante”

L’ossessione per il cibo è un po’ il segno negativo paradigmatico di una società moderna sempre più sospinta verso una sorta di annichilimento. Qual è, a parere tuo, la chiave per fronteggiare questo malessere dilagante, così profondamente autodistruttivo? “E’ una domanda difficile. Posso parlare per la mia esperienza personale: da adolescente ho lambito anch’io quei territori di insoddisfazione, di fragilità, che potevano portarmi a un disturbo alimentare serio. Mi salvò proprio il teatro. Mi diede in parte quella sicurezza di cui avevo bisogno. Chi soffre di disturbi alimentari gravi si ritrova spesso solo. La solitudine può essere scatenante della malattia, ma può anche acuirsi con questa. Forse il teatro, proprio perché conduce all’apertura verso l’Altro, può rappresentare uno strumento utile per liberarci da certe paure ed ombre. Il mio spettacolo, però, non ha velleità didattiche o di analisi troppo approfondite di una forma patologica: è un racconto giocato sul filo delle emozioni e delle sensazioni provate nel relazionarsi con chi è malato.”

C’è un’altra tematica che ti sta particolarmente a cuore e che desidereresti indagare in scena? “Ora come ora no, ma…la bellezza di questo mestiere è che quando tu ti trovi davanti a un testo, è la tematica stessa che sceglie te, che ti viene a cercare! Ad ogni spettacolo che preparo mi addentro in un argomento diverso, sempre appassionante: sia quello della diversità come in “Gyula”, o quello della sessualità come in “Girotondo Kabarett”, oppure quello del conflitto pirandelliano fra Verità-apparenza di “Così è (se vi pare)” che presto porterò in uno spettacolo del Teatro Nazionale di Torino…Insomma, al momento, la mia curiosità non può che sentirsi soddisfatta!”

Per info e prenotazioni sullo spettacolo: 0521 230242

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